Evviva le piccole comunità cristiane!

Quella mattina ricorreva quel passo degli Atti in cui si racconta che “quelli che erano venuti alla Fede avevano un cuor solo e un’anima sola…” Dicevo Messa a Borghetto con una decina di persone – della solita età e del solito genere -. Idealizzando un poco ho pensato: Ecco qui tra queste poche persone che sono convenute per la «frazione del pane» si realizza la promessa di Gesù: “Dove due o tre (!) sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. La distrazione è continuata ad alta voce e ho ricordato il «Gesù in mezzo» di Chiara Lubich e qualche spunto dal testo pubblicato in Germania dal titolo “Piccole Comunità Cristiane – Impulsi per una Chiesa capace di futuro”.

In questo libro si racconta come si vive oggi tra cristiani in Africa, in Sudamerica, in Asia, in Germania. Sì, anche in Germania, perché Vescovi tedeschi – che non sapevano più come fare con le loro parrocchie sempre più grandi e sempre più anonime e i loro parroci sempre più stanchi – sono andati a scuola dalle Chiese Giovani, per capire “come si fa chiesa” in India e in Corea e nelle Filippine… Qui era arrivato – importato dall’Africa – il metodo dei «Sette passi per condividere la Bibbia»: in piccoli gruppi – di quartiere, di villaggio, di periferia – si condivideva, con il pane e con i problemi locali, ciò che lo Spirito suggeriva ai presenti che ascoltavano ciò che il Signore diceva loro nella loro lingua.

In Africa ci si era accorti che il Vangelo era rimasto estraneo alla cultura locale: “La mattina in chiesa, alla sera dallo stregone”.

Per far capire questa «estraneità», o la distanza che può esserci tra una predica e la pratica, mi si permetta di riferire quanto mi disse un giorno mio padre – ero giovane prete: “Voialtri preti non capì gnente de familia”. “Ma come? papà…” “Voi no’ avé popi che pianze de note”.

Ecco, allora, per seminare il Vangelo in terreno africano, dove la famiglia e anche la famiglia allargata è molto sentita, e dove il noi quasi prevale sull’io e sul tu, cosa c’era di meglio da inventare che questi incontri quasi familiari in piccole comunità dove la Chiesa era vissuta e sentita come famiglia di Dio, dove la Parola era suggerita dallo Spirito all’orecchio e al cuore di ciascuno e poi veniva comunicata confidenzialmente ai fratelli.

Ecco questa era ed è la riforma della Chiesa dal basso, dalla base come si diceva in Sudamerica: Piccole Comunità fatte da gente comune, veramente Popolo di Dio, “vicini” che si aiutano l’un l’altro concretamente e insieme affrontano i problemi comuni; Chiesa «incarnata» – nel libro si parla proprio di incarnazione della Chiesa – incarnata nella famiglia e poi nella comunità e poi nella parrocchia e poi nella diocesi, e poi nella Chiesa locale: tutte «Chiese» a vari livelli per formare insieme «la Chiesa», comunità di comunità.

Pensando alle nostre piccole parrocchie, ho pensato che sono Chiese “incarnate”: incarnate in una chiesa che qualcuno tiene aperta, in un campanile che chiama insieme la gente; ciascuna di esse è una Piccola Chiesa che si incarna in un coro, in un consiglio pastorale; è una famiglia che – come la sacra Famiglia a Nazaret – abita in una casa, la Canonica; lavora in un laboratorio, l’Oratorio; è una piccola società con un consiglio che amministra… tutte realtà che favoriscono il senso di appartenenza, la partecipazione, la corresponsabilità, la collaborazione… tutte espressioni della “comunione che fa comunità”, del “sentirsi Chiesa” appunto…

Pare che l’attuale discussione dei Consigli diocesani sulla «unificazione delle parrocchie» si sia frenata. Per fortuna, penso. Non era questo che intendeva don Capraro, parroco e sociologo, che trent’anni fa aveva inventato le «Unità Pastorali». E mi duole che le parrocchie, invece che essere “incarnate” nel territorio della Provincia, vengano “incartate” in ordine rigorosamente alfabetico nell’Annuario Diocesano.

È vero, come si è espresso don Lauro, che l’unificazione non cancella le comunità e non chiude le chiese; ma, togliendo loro lo status giuridico di parrocchia, di fatto si scarica la responsabilità dalle spalle degli ex-parrocchiani e la si carica tutta sulle spalle dell’unico parroco. Oltretutto – come si è osservato di recente in Vallarsa – più cassette farebbero più mosina che una cassa unica”…

Nel libro di cui sopra – che propongo a Vita Trentina Editrice per la pubblicazione in lingua italiana – ho trovato un suggestivo riferimento ad un convegno di Giovani Comunità di Base con vecchie Comunità Indigene. Veniva paragonato alla Festa della Visitazione: incontro tra una giovane Chiesa in attesa e una vecchia Chiesa pur essa incinta. Sono certo che l’antica Chiesa di Trento, che trent’anni fa avevo dichiarato in menopausa, attraverso i «Passi di Vangelo» e i piccoli Gruppi sinodali, ridiventerà feconda come una volta.

Don Remo Vanzetta è cappellano alla Casa di Riposo di Avio e collaboratore pastorale ad Ala

 

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