“Gente felice”, la volontaria dell’Hospice Cecilia Dal Rì: “Siamo vivi per lo scambio che abbiamo con gli altri”

Cecilia Dal Rì è una nonna affettuosa, ama camminare in montagna e andare a teatro. Con due ex colleghi infermieri ha fondato l’associazione Amici di Fondazione Hospice per dare supporto a malati incurabili e ai loro familiari. Il Comune di Trento ha raccolto la sua storia per la campagna “Gente felice”, lanciata in occasione di Trento capitale europea e italiana del volontariato 2024.

Come si è avvicinata al mondo del volontariato?

Sono stata infermiera per quarant’anni. Mi sono accostata al volontariato dopo un corso per facilitatrice presso l’associazione Ama, di cui sono ora presidente. All’epoca c’era la necessità di creare un servizio per l’elaborazione del lutto e io ho ricevuto l’incarico, come infermiera nell’ambito delle cure palliative, di attivare i gruppi. Nel 2010 sono andata in pensione e, oltre a continuare con Ama, insieme a due colleghi abbiamo deciso di associarci alla Fondazione Hospice, prima, e poi di creare l’associazione Amici di Fondazione.

Mi parla meglio di Hospice? Cosa fa l’associazione, com’è strutturata e che ruoli ci sono?

Siamo nati nel 2016, con un direttivo e un presidente e delle commissioni (che sono poi diventate dei gruppi), ognuna con un suo referente. Abbiamo il gruppo comunicazione, il gruppo creativo, oltre che quello di accoglienza e ambito assistenziale. Altri gruppi sono per la raccolta fondi e per il verde, molto importante perché la struttura ha un bel prato attorno. E infatti la gente che viene spesso ci paragona, scherzando, a un hotel a quattro stelle.

Nello specifico dell’ambito assistenziale, siamo presenti dalle 9 di mattina alle 18 di sera, con turni di due ore. Siamo parte dell’equipe delle curve palliative, con cui siamo complementari. Noi non facciamo nulla di sanitario, ma l’equipe ci attiva quando il paziente ha bisogno di parlare, di socializzare, di fare una passeggiata nel giardino. Il servizio a casa, a domicilio, è invece ancora poco conosciuto. Stiamo spingendo molto su questo fronte perché gli infermieri ci attivino più spesso. Andiamo a casa delle famiglie che hanno più bisogno e facciamo degli accompagnamenti.

L’Hospice non è un posto in cui si va a morire, ma un posto per dare sollievo. Sollievo dai sintomi, ma anche per rispondere a bisogni sociali e spirituali, in riferimento al termine “dolore totale” che si riferisce non solo al dolore fisico ma anche a quello psicologico, spirituale e sociale.

Lei come affronta il fatto di doversi interfacciare quotidianamente con il dolore degli altri?

Mi arricchisce molto, mi sembra che ognuno mi dia un pezzettino di sé che rimane con me. A me fa piacere risolvere i problemi dell’altro. Sento che ho questa inclinazione ad esserci, ad aiutare.

Gli altri volontari come entrano in contatto con l’associazione?

Molti con il passaparola e tanti sono persone che hanno avuto i loro cari come pazienti dell’Hospice e vogliono poi ricambiare il bene che hanno ricevuto. Poi noi facciamo tanta formazione, con un gruppo specifico che se ne occupa. Facciamo una supervisione quindicinale continua, un corso base di venti ore e poi quattro o cinque incontri annuali. Partecipiamo, poi, al congresso nazionale della società di cure palliative e facciamo visita ad altri Hospice. La formazione è sulle emozioni e sulla comunicazione e rispecchia i parametri e il codice etico della Federazione cure palliative, a cui siamo affiliati a livello nazionale. Nel caso, invece, di pazienti con la sla abbiamo corsi aggiuntivi più pratici per essere in grado di aiutarli al meglio.

Come ha cambiato la sua vita il volontariato?

Il volontariato mi riempie la vita e mi dà l’occasione di conoscere persone, ognuna con il proprio bagaglio culturale e intellettuale. C’è uno scambio. Penso che siamo vivi anche per lo scambio che abbiamo con gli altri, e penso che l’altro sia necessario. Ho iniziato a lavorare in sala operatoria, come strumentista, quindi non parlavo con nessuno. E quando hanno aperto i manicomi hanno detto “chi vuol venire in psichiatria?” e io mi sono offerta. Eravamo in quattro all’epoca sul territorio. E quindi sono passata dall’essere chiusa all’essere all’estremo opposto. Poi sono anche molto riflessiva, mi piace la concretezza e il ricercare il meglio per me stessa e per chi mi sta intorno. E questo (il volontariato) mi ha dato molto, senza sarei diversa da quella che sono, perché la mia vita sarebbe più semplice, più ripetitiva e con meno interessi. E poi mi sento di avere anch’io qualcosa da dare.

Ha qualche consiglio per i volontari nel suo settore?

Deve prevalere la gratuità, il dare senza aspettarsi niente. Poi arriva sempre qualcosa. Ma il consiglio è di andare spogli proprio, aperti, senza pretese. E di non sentirsi in obbligo di fare il volontario. Di non forzarsi.

C’è una persona, un aneddoto, che ricorda con particolare affetto riguardo alla tua esperienza di volontariato?

Quand’ero ancora dipendente, ho assistito un mio coetaneo che è morto di tumore e poi sono rimasta vicina alla sua mamma. Per lei sono diventata un po’ una figlia. E, quindi, ho continuato con lei a fare volontariato per otto anni finché non è morta. Con lei era uno spasso. Mi ha coinvolta ed è stata una mamma ideale, perché non pesava e quando c’ero mi ricopriva di ringraziamenti. Alla fine se non la sentivo per due giorni mi diceva “vuoi trovarmi cadavere?”. Lei appunto rimane sempre nella mia vita. Mi ha insegnato la gratuità.

Fare volontariato mi rende felice perché…

Perché mi rende consapevole, dà un senso e un’identità alla mia vita.

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