Dalla Chiesa, il dovere civile come impegno morale

Pur tristemente controprogrammata da “Il Grande Fratello Vip” (un programma che sarebbe lecito auspicare non titillasse ancora così massicciamente i bassi istinti, o la noia di molti telespettatori italiani), è andata in onda, nei giorni scorsi, su RaiUno, la miniserie in quattro episodi Il nostro generale dedicata al compianto Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1920-1982), ora su RaiPlay.

Protagonista assoluto Sergio Castellitto: un interprete che non ha bisogno di presentazioni e che, in questo, come oserei dire in ogni suo lavoro, dimostra di essere un talentuoso e sempre più maturo protagonista nel panorama dei “veri” attori italiani, peraltro forse non proprio in espansione.

Scegliendo di edificare l’asse portante del racconto sull’uomo, prima che sul militare e servitore dello Stato, Dalla Chiesa, la fiction si è rivolta esplicitamente al target più ampio e consolidato della rete ammiraglia Rai, ovvero ad un pubblico tradizionalmente di età matura e in maggioranza femminile, che non avrebbe facilmente digerito un racconto troppo ancorato alla sola dimensione storico-politica, che pure ha avuto grande parte nella eroica, talvolta solitaria e infine tragica “missione” del Generale dei Carabinieri, ucciso a Palermo, il 3 settembre 1982, insieme alla seconda moglie, Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo.

Il merito del progetto, per la regia di Lucio Pellegrini e Andrea Jublin, è soprattutto degli sceneggiatori: il quarantenne napoletano Peppe Fiore e soprattutto Monica Zapelli. Quest’ultima, nel 2000 è stata autrice, al suo esordio, con Claudio Fava (anch’egli orfano di mafia) del bellissimo I cento passi, sulla tragica vicenda di Peppino Impastato, film che vinse sia il premio per la sceneggiatura al Festival di Venezia, sia il David di Donatello; premio che la Zapelli ha riottenuto l’anno scorso per l’adattamento cinematografico de L’Arminuta, dal romanzo Premio Campiello nel 2017. Forte, dunque, di una scrittura tanto documentata, quanto saggiamente appassionata, nelle case di molti di noi è tornata, attraverso la forma contemporanea dello sceneggiato televisivo, la fondamentale vicenda dell’uomo piemontese, dedito al servizio delle istituzioni, che accetta, consapevole del pericolo, la sfida frontale con la barbarie mafiosa. Un uomo soldato, a tratti inflessibile e duro nei modi, ma anche un marito e un padre premuroso. Un civil servant che, per amore della legalità e di una pace sociale in quegli anni gravemente minacciata, accetta di stravolgere la sua vita e quella della sua famiglia, pur di non venir meno ad un dovere civile, sentito come imperativo morale.

Alla luce di ciò, passano in secondo ordine i rilievi di dettaglio tecnico che pure potrebbero farsi in merito a qualche lentezza e ripetizione nella messa in scena, o riguardo alla recitazione di qualche comprimario. Appare più rilevante, anche al di là dei non eclatanti dati d’ascolto, unirci al plauso da più parti condiviso per un’operazione culturale doverosa da parte del servizio pubblico televisivo. è grazie ad occasioni come quella de Il nostro generale che Rai merita l’esborso del canone che ancora non pochi onesti concittadini pagano volentieri, nonostante l’esodo massiccio ed esclusivo verso le piattaforme. Incoraggia sperare che anche alcuni, se non molti giovani e ragazzi, magari unendosi ai genitori, in un’ormai sempre più rara fruizione famigliare, abbiano potuto colmare il grave gap dei programmi scolastici sempre in ritardo, e abbiano conosciuto uno dei protagonisti della nostra storia più recente, che ha materialmente difeso la Repubblica di cui, nonostante il mal vezzo del piagnisteo diffuso, possiamo essere fieri e che ancora sta a noi edificare.

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