Statuto: riforma o abolizione?

Autore di una delle cinque relazioni di minoranza, lamenta il venir meno del processo partecipativo

Bolzano – Autonomia verso dove? I lavori della Convenzione dei 33 si sono conclusi con un documento finale (non disponibile perché ancora in fase di scrittura) e cinque relazioni di minoranza. Una di queste è opera di Riccardo Dello Sbarba, consigliere dei Verdi e attento osservatore delle cose altoatesine. Gli abbiamo chiesto di esprimere la sua opinione di outsider-insider.

Dello Sbarba, la Convenzione è stata lo strumento giusto per affrontare il tema della riforma dello Statuto?

Le due idee da cui è nata la Convenzione, come la Consulta di Trento, è che occorreva riformare lo Statuto di autonomia, che ha ormai 45 anni, e che bisognava farlo stavolta con un processo partecipato, per costruire una autonomia delle cittadine e dei cittadini. Queste due idee erano giuste, ma non c’è stata consapevolezza su che cosa significasse prendere questa strada.

Ovvero?

Primo, non tutti i partiti erano convinti che davvero fosse necessario aprire una terza fase dell’autonomia. Per molti, soprattutto per la maggioranza, continuava ad essere più rassicurante la strada delle modifiche parziali e successive, fatte a colpi di norme di attuazione nel chiuso delle commissioni dei Sei e dei Dodici. Secondo, non a tutti i partiti era chiaro che cosa significasse un processo partecipato. La legge ha previsto la partecipazione solo nella fase iniziale, poi il processo si è ristretto dagli open space al Forum dei 100 e alla Convenzione dei 33, senza più tornare alla società civile.

Inoltre il forum dei 100, che doveva essere l’istanza più larga, è stato composto sulla base di autocandidature e i sociologi sanno bene che con questo meccanismo tu raccogli sono le minoranze più compatte e motivate, che pensano di poter cogliere l’occasione per legittimare le proprie idee. E così è accaduto: la parte più ideologizzata degli Schützen si è candidata in massa ed è risultata alla fine sovrarappresentata. Volevano legittimare l’idea che per il Sudtirolo, nell’Europa di oggi, sia maturo il tema dell’autodeterminazione e in effetti ci sono riusciti. Col paradosso che un processo per costruire la nuova autonomia si è concluso con l’idea che bisogna superare l’autonomia stessa.

Quali sono secondo lei i punti qualificanti del documento finale e quali le criticità?

Sinceramente, vedo pochi punti di forza nel breve documento finale. La parte centrale consiste in un lungo elenco di competenze da portare da Roma a Bolzano, tutte richieste già contenute da anni nei diversi disegni di legge costituzionale presentati in Parlamento dai deputati Svp. In compenso, vedo molti punti di debolezza. Il documento è espressione di un asse tra un settore della Svp, guidato dall’ex presidente Durnwalder, e i partiti della destra tedesca. Politicamente, nel documento si incontrano da un lato la linea dell’“autonomia integrale” portata alle sue estreme conseguenze, che in molti punti prescinde dal quadro costituzionale della repubblica italiana, e dall’altro la linea dell’autodeterminazione, che ha trovato la sua citazione per la prima volta in un documento ufficiale. È invece rimasta in minoranza la proposta di un nuovo patto di convivenza, per una autonomia più aperta, moderna e europea.

Di cosa ci sarebbe stato bisogno?

Sarebbe servito disarmare i meccanismi della vecchia separazione etnica, puntando invece su una società più integrata e bilingue. Anche la linea pragmatica e moderata di Arno Kompatscher era poco rappresentata, schiacciata dall’asse Durnwalder-Schützen. In questo senso la Convenzione non è stata lo specchio della società sudtirolese, che è molto più critica e avanzata, né lo specchio della politica sudtirolese, che è molto più plurale e aperta.

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