Dalla cupidigia e dalla stoltezza: libera nos, Domine!

Qoèlet 1,2; 2,21-23;

Colossesi 3 1-5.9-11;

Luca 12,13-21

Quando si regala un giocattolo un po’ sofisticato a un bambino, è talmente preso che pensa solo a farlo funzionare; non bada più a nessuno, neanche alla persona che glie l’ha dato. È normale che i bambini si comportino così. Quando invece sono gli adulti a comportarsi così, allora vuol dire che nell’intimo sono rimasti bambini, o più esattamente “piccini”, immaturi: il loro mondo è fatto di piccinerie. Gli esempi abbondano. Quando badiamo più alle cose – che abbiamo o non abbiamo – invece che a Colui che ce le dona, allora siamo piccini. Con i bambini succede anche che più giocattoli hanno, più ne vorrebbero, ma è altrettanto vero che più ne hanno, meno li sanno apprezzare. Ma sono bambini, vanno educati, lo si sa. Quando però succede agli adulti, allora è più difficile educare. Allora la voglia di avere non ha più limiti: si fanno progetti, si lavora, si fanno straordinari su straordinari per poter avere di più. Magari poi si va dicendo che “i soldi non fanno la felicità”, ma allora perché premono così tanto? Possono diventare una droga, una specie di tossicodipendenza che si diffonde a macchia d’olio. Il vangelo di questa domenica la chiama “cupidigia”: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia…”. Nella lingua greca di Luca suona così: “pleonexìa”, e vuol dire “smania di riempirsi”: di che cosa? Di “vanità”, come afferma Qoèlet, il saggio realista della prima lettura: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità”. In che senso? Nel senso di “grande imbroglio”. Sì, perché l’accumulare richiede impegno, diligenza, tempo, attenzioni… tutte cose che vanno a scapito dei rapporti personali (compreso quello con Dio e che si chiama fede). Allora è inevitabile che le relazioni si allentino, si sciolgano, fino al giorno in cui si scopre che non ci sono più legami. Quante famiglie ha mandato all’aria la cupidigia in questa nostra epoca! Riconosciamolo onestamente, pur senza accusare nessuno: i motivi sono di vario genere, ma questo è tra i primi in graduatoria! L’uomo ricco di cui parla la parabola evangelica di questa domenica è uno che cerca di arrabattare beni più che può, ma è solo, maledettamente solo! L’epidemia della cupidigia infatti crea persone labili, incapaci di autentiche relazioni, abbandonate a se stesse e sole della peggiore solitudine che ci sia. Ecco perché l’affanno dell’avere e dell’accumulare è un grande imbroglio. E l’ultima espressione di questo grande imbroglio è fornita dal finale della parabola evangelica di questa domenica: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Quello che hai accumulato non ti servirà per riscattare la tua vita dalla morte e nemmeno per l’aldilà, perché nulla di ciò che hai accumulato puoi portare con te.

Ma perché questa smania di accumulare non si sazia mai? Da dove nasce questa strana voglia di riempirsi di vanità? E’ sintomo di un’esigenza che ogni persona si porta dentro. Solo che la risposta a quell’esigenza è una medicina sbagliata. Cerchiamo di capire. Quando usiamo la parola “salvezza”, forse siamo portati a pensarla in termini esclusivamente spirituali e lontani: “salvezza dell’anima” o “salvezza nell’aldilà”… No, è sbagliato. Salvezza è realizzazione di se stessi ora, adesso: nell’aldiquà prima che nell’aldilà. Salvezza è garanzia da ogni male che ci potrebbe rovinare in modo irrimediabile. È trovare un buon motivo per vivere, ma così affidabile che sostiene sia nei giorni belli, sia in quelli oscuri e penosi. Molti si illudono che per ottenere tutto ciò si debbano mettere insieme beni, possibilità economiche, comodità. Ma si tratta di un sacco senza fondo, non possono far altro che accumulare, senza fermarsi mai. No, è illusione: “vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità”. “Stolto! – sentiamo dire nella parabola evangelica – Ciò che hai accumulato non ti serve: questa notte ti sarà richiesta la tua vita”. Eh, sì: è grosso il rischio di sentirsi dare dello stolto da Gesù Cristo. Sarà pur vero che i primi responsabili della crisi economica dei nostri giorni non siamo noi (nel nostro piccolo), ma non c’è dubbio che dipenda anche da questa epidemia di cupidigia che ha preso tutti e ha ormai superato i limiti di guardia. Quale sarà l’antidoto adatto? Il Signore ci mette davanti un’alternativa: “o accumulare tesori per se stessi, o arricchirsi davanti a Dio”. La dimostrazione della prima alternativa è il ricco stolto della parabola. Arricchirsi davanti a Dio invece è riservargli il primo posto in assoluto nella propria esistenza, anche in termini di tempo (non si può dire di arricchire davanti a Dio se poi gli si riserva solo le briciole del proprio tempo). Arricchire davanti a Dio è avere a cuore la giustizia, praticare operosamente la carità, lasciarsi animare da un certo spirito (buono!) sia nel proprio lavoro, sia nelle scelte sociali e politiche. Chi arricchisce davanti a Dio lavora e fa soldi per vivere e condividere, non vive per far soldi come il ricco stolto di cui parla la parabola. La definizione più bella di questo arricchire davanti a Dio ce l’offre san Paolo nella seconda lettura: “Fratelli, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo…”. In passato si accusava il Cristianesimo di interessarsi esclusivamente delle cose di lassù. Se in questo nostro tempo cercassimo con un po’ di più entusiasmo proprio le cose di lassù, probabilmente anche quelle di quaggiù andrebbero meglio.

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