Mario Rigoni Stern, rigore e semplicità

Ci è mancato molto in questi dieci anni: ci è mancata la sua voce mite e chiara di denuncia e con essa il suo rigore e la sua sobrietà. Dieci anni fa, il 16 giugno 2008 ci lasciava Mario Rigoni Stern, uno dei maggiori narratori europei della montagna. Cimbro (era nato ad Asiago nel 1921) in molte delle sue opere egli ha raccontato – o potremmo anche dire, vista la vena sotterranea di poesia che ha permeato molti dei suoi scritti, cantato – la storia e le sofferenze, i drammi e i mutamenti di un mondo di montagna che gli era intimo, e che ha saputo calare nelle vicende del ventesimo secolo.

Senza retorica alcuna e senza smanie di pubblicità nei mass media – al contrario di chi oggi, sbandierando gli stessi temi, imperversa in TV senza ritegno -, Rigoni Stern ha composto opere genuine e di una semplicità inimitabile: tra queste Arboreto selvatico (uscito nel 1991 per Einaudi, il suo editore), un appassionato omaggio al “popolo degli alberi”, raccontati in sapienti miniature, nel rimpianto che oggi siano esposti ai rischi della cementificazione e di un turismo irresponsabile.

Altro romanzo fondamentale è Storia di Tönle (1978), dove si narra di un contadino nato nell’Ottocento nell’Altopiano di Asiago, che da giovane per sopravvivere aveva dovuto fare il contrabbandiere e poi, scoperto, vivere per anni all’estero: emigrando ripetutamente in diverse zone d’Europa, dalla Baviera a Cracovia, dal Tirolo a Praga. Tönle Bintarn visse vendendo stampe, ma pronto a svolgere anche lavori più umili (scortecciare legname, sorvegliare i cavalli, governare le stalle); ma il richiamo delle radici era sempre forte: “quando sui giardini e sui tetti di Praga scese la prima neve sentì impellente il bisogno di ritornare a casa. Non per niente nel nostro antico linguaggio bintarn equivale a “invernatore”. E una grande nostalgia lo colse”.

Negli ultimi anni della sua vita, il vecchio Tönle farà a tempo a vedere le distruzioni della “grande guerra” nei suoi luoghi natii. La profonda condanna della disumanità della guerra è un altro tema chiave dell’opera di Rigoni Stern, ed è centrale nel nel suo romanzo più famoso, Il sergente nella neve (1953): la narrazione autobiografica di un anno sul fronte russo, dal 1942 al 1943. Anche nella catastrofe, lo scrittore racconta però come poteva nascere un barlume di speranza: come quando il protagonista entra in un'isba dove vi sono dei soldati russi e, messo il fucile in spalla, chiede un piatto di minestra, che mangia avidamente: poi ringrazia ed esce. “Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente”. Un monito che sottolinea come il senso di umanità e la solidarietà possano manifestarsi anche in momenti così drammatici.

Enrico Grandesso

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