Una stabilità difficile

Il percorso per l’approvazione della legge di stabilità entra nel vivo con l’aprirsi della cosiddetta sezione di bilancio, quando cioè le Camere concentreranno il loro lavoro sull’approvazione del provvedimento che fissa le coordinate del bilancio dello stato per il 2016. E’ un percorso che non è mai stato facile per nessun governo, neppure in tempi in cui c’erano ben maggiori risorse di quanto oggi sia disponibile. Ecco allora che si annuncia un battaglia senza esclusione di colpi.

Con l’occhio alle due scadenze politiche del prossimo anno, le amministrative a primavera e il referendum confermativo delle riforme costituzionali che seguirà (si presume in autunno), gli avversari di Renzi non sono disposti a concedergli il vantaggio di una manovra economica che, se riuscisse, lo metterebbe in condizione di affrontare più serenamente soprattutto la prima delle due prove. Per quanto in elezioni amministrative il traino dell’andamento politico nazionale sia modesto, resta vero che in una situazione di ripresa economica il premier sarebbe in grado di governare meglio un partito riottoso e parcellizzato sul territorio come è in questo momento il PD.

Il problema è che la scelta che il governo ha fatto con questa finanziaria è rischiosa e come sempre quando uno affronta un rischio è più semplice “gufarlo” (per assumere il linguaggio renziano) prospettando che il rischio porterà a sbattere contro un muro.

Ora, detto in termini semplici, la manovra attuale è una manovra in deficit: cioè si investe a prezzo di fare dei debiti nella convinzione che se gli investimenti daranno i risultati attesi con quei frutti ripianeremo i debiti contratti. Naturalmente non è tutto così semplice, perché, se fosse solo così, in fondo non si farebbe molto di diverso rispetto a quanto si è fatto, anche in misura maggiore, in anni passati con gli esiti assai poco brillanti che stiamo scontando. In realtà per rendere sostenibile l’investimento in deficit si dovrà tagliare e non poco, anche se le cifre sono ballerine (almeno per noi che non siamo dei tecnici).

Di conseguenza assistiamo a due fenomeni. Da un lato le burocrazie economiche, Corte dei Conti e Bankitalia in primis, si tutelano e avvertono pubblicamente che si fa dell’equilibrismo senza rete. Comprensibile: se il trapezista si sfracellerà, potranno sempre dire di non essere responsabili perché loro avevano avvertito. Dal lato opposto tutti quelli che sono toccati dai tagli si ribellano: ciascuno dice che capisce benissimo le difficoltà, ma per piacere si tagli ad un altro. E’ il ritornello di sindacati, enti locali, minoranza dem e via elencando.

Quel che si finge di non capire è che non ci sono molte alternative, tanto che su questa linea converge anche un uomo prudente e tecnicamente attrezzato come il ministro Padoan. Il paese infatti non può essere abbandonato alla stagnazione, soprattutto ora che c’è qualche spiraglio di ripresina interna e soprattutto è presente una buona situazione di opportunità internazionali. Per incentivare la ripresa il governo ha scelto di mettere in campo un mix di incentivi psicologici per una rinascita dei consumi e di incentivi di sostegno agli investimenti pubblici e privati. Lo si farà riducendo un po’ di tasse, a partire da quelle meno comprese, ma al contempo limando qui e là spesa pubblica, ma soprattutto trasferimenti alle sedi di spesa periferiche, a cominciare dagli enti locali.

Servirà? Non è facile prevederlo in un contesto fluido e mutevole, dove soprattutto una lotta politica ormai ingovernabile sta rendendo difficilissimo sia promuovere quel clima di fiducia pubblica che sarebbe indispensabile, sia tagliare con razionalità dove è possibile.

Anche qui, e torniamo al discorso iniziale, la posta in gioco è l’esito delle amministrative di primavera, dove pesano soprattutto le incognite di Roma e di Milano. Se il PD uscirà con le ossa rotte da quelle prove, Renzi non sarà in condizione di affrontare serenamente il referendum sulle riforme costituzionali, ma soprattutto dovrà prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di rivedere la legge elettorale. Questa per lui sarebbe una vera debacle, perché se deve tornare alle logiche di coalizione tutta la sua costruzione viene minata dalle fondamenta: dovrebbe affrontare non solo la scissioncina irresponsabile già in atto nel PD, ma vederla allargarsi; dovrebbe non solo cedere a patti di coalizione complicati, ma aspettarsi che questi poi vengano messi in discussione in corso d’opera come è già successo a Prodi.

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