La maglia della vergogna

“Càvete quea maiéta”. Al trentino in trasferta, il dialetto scaligero, pur diverso per sonorità, è familiare. Ghiotta occasione a meno di un'ora d'auto un Verona-Milan posticipo serale ancora da maniche corte. Alla maglietta, di quelle ufficiali, mio figlio ci teneva. “Ora la metto” dice scendendo dalla macchina, sfidando la mia parziale perplessità. Il mio è un “occhio!” precauzionale, ma mi rendo conto che forse sto esagerando e che no, non può essere certo un problema se entriamo allo stadio con quel segno, evidente anche se non sbandierato, di simpatia calcistica. “Sono umani, dai papà”. Genitori, figlio e un amico coetaneo. Convinti di aver acquistato dalla società ospitante il diritto a godersi in un settore misto “tranquillo” una bella serata di calcio, vada come vada e palma al migliore.

“Càvete quea maiéta!”. L'avvertimento arriva alle spalle mentre siamo alla ricerca del nostro cancello d'ingresso in tribuna est. Allunghiamo il passo ma altre grida, insieme alle braccia tese, si alzano minacciose. Invito mio figlio a mettersi la felpa, per mascherare l'incriminata bianca a bordi rossoneri. Ma le urla al nostro indirizzo non si arrestano. Mi giro: un uomo di mezza età sta caricando verso di noi come un toro inferocito. “Càvete quea maiéta!” sputa velenoso. Una bestia blasfema. L'adolescenza baldanzosa di mio figlio sembra portarlo a reagire di petto. Mi frappongo e cerco di tenere a bada l'aggressore che fende l'aria con la mano. Costringo allora mio figlio a togliersi la maglia. Impietrito, lo fa. E l'uomo sembra calmarsi, complice un amico intervenuto apparentemente a bloccarlo. “E' civiltà questa?”, sbotto a voce alta. E l'ultimo arrivato, a ghigno duro: “Civiltà? E te pàrea civiltà, a vòssa? Vergogna, vergogna!”.

Hanno vinto loro. Il disturbo è tolto. Qualcuno avvisa un addetto della Federazione Gioco Calcio. Spieghiamo l'accaduto. “Segnaleremo”, garantisce. Tutto ci sembra paradossale. E ancora tremanti veniamo almeno scortati da lui oltre il cancello e affidati a uno steward: “Tranquilli, in tribuna in tanti sono milanisti”. Dietro la nostra fila 18, settore K, c'è un'enorme coperta gialloblù. Ci sediamo frastornati e intimoriti. L'ordine è paradossale: “Ragazzi, nessun cenno di esultanza. Anzi, applaudiamo gli avversari”. La partita scivola via in un clima surreale. Nessuno in verità ci dice più nulla, non ve ne sarebbe motivo. Ma attorno l'aria è pesantissima, il clima intimidatorio. E il risultato del campo, pur favorevole, non ci interessa più. Usciamo dallo stadio quindici minuti prima. Temiamo, forse in modo irrazionale, ci possano riconoscere e “vendicare” la sconfitta e quella innocua divisa. Scalzata da una casacca che sa di odio gratuito, discriminatorio, figlio di un umanesimo contraffatto, denudato senza pudore davanti a un quindicenne che mentre s'affaccia alle sfide vere della vita si appassiona a un pallone da spingere in rete.

Sopra “a maiéta” c'è stampato il nome di Çalhanoğlu, centrocampista dai piedi buoni. “Turco di m.!” lo apostrofava di continuo l'assatanato al nostro fianco in tribuna. Il troglodita – come quelli che in curva ululavano al tocco dell'unico giocatore di colore in campo (nessuna ammenda alla società) – non sapeva che nello zaino avevamo nascosto proprio quella maglietta. Domenica 15 settembre, di ritorno dal Bentegodi, mio figlio la ripone nell'armadio. Non so se ci sarà un'altra occasione per vederlo con quel 10 sulla schiena. Di sicuro, non a Verona. È amarissimo: non servirà più dirgli di togliersela.

Piergiorgio Franceschini

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