La non violenza cristiana

La mai risolta questione del rapporto tra il cristianesimo e la violenza

Davanti alle immagini dei cristiani e delle altre minoranze religiose perseguitate im Iraq e nel sentire le notizie dei massacri perpetrati dal cosiddetto “Stato islamico”, molti hanno invocato l’utilizzo delle armi per fermare gli integralisti. Disperati appelli sono venuti anche dalle autorità religiose del Patriarcato caldeo e da altre confessioni cristiane: la dimensione della tragedia implica quasi il dovere morale di intervenire con la forza. Così, a fronte di un’Europa sostanzialmente immobile e divisa, sono dovuti intervenire i soliti “Gendarmi del mondo”, gli Stati Uniti, che agiscono ovviamente anche per tutelare i propri interessi. Capire come si evolverà politicamente e militarmente la questione – e se i cristiani scacciati potranno ritornare alle loro case – è davvero arduo.

Questi eventi hanno fatto riemergere con grande urgenza la mai risolta questione del rapporto tra il cristianesimo e la violenza. A prendere alla lettera il Vangelo avrebbero ragione i “quaccheri”, il gruppo protestante radicalmente pacifista, contrario al servizio militare e all’esercito che predica una non violenza integrale. Al di là delle interpretazioni. però, non si può trasformare chi ha detto di porgere l’altra guancia e di amare i propri nemici in un predicatore della guerra giusta. Trasformare Gesù nel patrono dei soldati stride con lo spirito e la lettera del Vangelo.

Eppure un secolo fa i cappellani militari benedicevano gli eserciti mandati al massacro durante la prima guerra mondiale, maledicendo nello stesso tempo i nemici della “patria”. Per quasi tutti i secoli dell’era cristiana era stato così, almeno da Costantino in poi: per il grande papa rinascimentale Giulio II era normalissimo guidare bardato con l’armatura le proprie truppe. Da questo punto di vista il magistero pontificio ha compiuto in questi ultimi cento anni una notevole trasformazione: dalla denuncia di Benedetto XV relativa all’“inutile strage” della Grande guerra, passando per il grido di Giovanni Paolo II sulla guerra come “avventura senza ritorno” del 1991 fino all’odierna preoccupata constatazione di papa Francesco per cui la pace, la difesa dei diritti umani e la convivenza tra fedi diverse non si costruiscono “con le bombe”.

Rimane però il problema: non è legittima difesa sparare con una pistola contro chi armato di mitragliatrice sta per compiere una strage peggiore? Non bisogna anche pensare al male minore? Molto spesso una posizione inflessibile verso i propri ideali porta a conseguenze catastrofiche che finiscono per tradire quegli stessi ideali. Il diritto internazionale moderno – una costruzione politica e giuridica molto fragile – cerca proprio di regolamentare i rapporti anche in caso di guerra. Esso si è evoluto nella Carta dell’ONU che appunto prevede un capitolo dedicato all’uso legittimo della forza.

Questa non può essere la prospettiva cristiana. Se non ci fosse da parte dei credenti in Gesù una profezia di pace in grado di fornire un’alternativa al pensiero del mondo, allora il sale perderebbe davvero il suo sapore e la luce sarebbe messa sotto il moggio. Alcuni criticano Francesco per il suo troppo irenismo; mentre i cristiani di Iraq stanno scomparendo, il Papa parla soprattutto della grande potenza della preghiera e della necessità che quei cristiani stessi resistano in questa terribile prova seguendo le orme di Gesù.

Alle volte forse ci si dimentica che la via cristiana è la croce e soltanto attraverso di essa si può giungere alla risurrezione. Questa prospettiva a volte è stata equivocata. Non si tratta di un’esaltazione un po’ masochista della sofferenza, non si tratta di rinunciare alla gioia anche terrena. Seguire Cristo è cercare di vincere il male con il bene mettendo in conto che l’esito di questa lotta potrebbe essere paradossale agli occhi degli altri uomini. Gesù vince quando è (provvisoriamente) sconfitto, quando il suo progetto sembra fallire. In questo senso non ci può essere una Chiesa trionfante e potente, ma ci deve essere sempre una Chiesa perseguitata.

Accettare questo discorso è molto arduo, ma il Vangelo ci parla proprio di questa strada. Anche Gesù sperava in un esito alternativo, ma a fronte della violenza ha sempre risposto con la misericordia. Non è detto allora che per i cristiani perseguitati l’unica via da percorrere sia l’inerzia o la silente rassegnazione, ma essa è invece un continuo grido al Signore per la propria liberazione ma anche un gesto concreto di perdono. Questa è la non violenza cristiana.

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