Ripensare il modo di vivere cristiano

Conventi vuoti, parrocchie accorpate, sacerdoti che devono gestire anche più di 10 campanili… realtà su cui dobbiamo interrogarci

Il drastico calo delle vocazioni religiose in Europa sta portando e porterà grandissimi cambiamenti nella concreta vita di tutta la Chiesa. A livello generale è questo il problema che più inciderà sul cattolicesimo contemporaneo, probabilmente molto di più delle questioni (comunque importantissime) relative alla famiglia, alla bioetica, al rapporto con la politica. I conventi vuoti, le parrocchie accorpate, i sacerdoti che devono gestire anche più di 10 campanili, le funzioni guidate da laici, le difficoltà di intere comunità cristiane una volta fiorenti, sono tutte realtà su cui dobbiamo interrogarci. Questa dinamica in atto ormai da decenni è vista alternativamente come un sintomo gravissimo del progressivo allontanamento dalla fede oppure come un segno dei tempi, come un’opportunità, certo dai risvolti incerti e dolorosi, per rivedere non tanto l’organizzazione formale della Chiesa, ma soprattutto la sua pastorale di ogni giorno.

Anche l’aspetto giuridico però conta molto. Alcuni ordini religiosi, spinti e quasi costretti dall’esiguità dei numeri, stanno superando antiche divisioni interne per procedere ad accordi e unificazioni impensabili fino a qualche lustro fa. Altri saranno addirittura obbligati a chiudere i battenti, ad accorparsi con congregazioni simili: il proliferare di gruppi indistinguibili per vocazione e ridotti ai minimi termini non ha più senso, non risponde più ai bisogni del mondo contemporaneo. Forse questo è un bene.

Sorge però una domanda. Che ne sarà dei beni materiali, degli edifici di proprietà di questi ordini? Non serve andare lontano per vedere le conseguenze di questa inarrestabile desertificazione. Nella nostra diocesi molti conventi, ormai privi di religiosi che li popolassero, sono stati ristrutturati per essere venduti o utilizzati per altri scopi; e così accadrà in futuro. Per fortuna (o da altri punti di vista per sfortuna) qui da noi la Provincia interviene con cospicui contributi di denaro pubblico: ma dove questi soldi non arrivano o non ci sono, ecco che chiese, monasteri, grandi edifici costruiti per opere di carità, rischiano di essere trasformati in magazzini, alberghi, capannoni, semplici luoghi di ritrovo, oppure di essere lasciati andare nella più completa desolazione. Piange il cuore vedere un’intera storia finire nel giro di pochi mesi. Purtroppo questo sarà il quadro per numerosi anni a venire. Quando comunità religiose chiudono ci accorgiamo del loro valore, vogliamo che rimangano… Ma ormai è troppo tardi.

Anche i nuovi movimenti ecclesiali, tranne rarissime eccezioni, vivono la stessa crisi vocazionale e faticano a rimpinguare le fila, a mantenere quanto costruito con la passione degli esordi. Il reflusso colpisce anche loro.

Difficile trovare soluzioni concrete. E la necessaria preghiera per le vocazioni dovrebbe tradursi anche nella richiesta a Dio affinché ci aiuti a intraprendere con coraggio sentieri nuovi. Per poter camminare in avanti occorre prima di tutto rendersi conto della mutata situazione: un papa argentino ci dice che il futuro del cattolicesimo verrà dal sud del mondo, dall’Africa, sicuramente dall’Asia. La geografia della fede è già cambiata, quelle che un tempo erano le periferie stanno diventando il centro della cristianità. Forse credenti venuti da lontano riempiranno un giorno conventi e chiese. Già ora dobbiamo abituarci a una Chiesa meticcia, per usare un aggettivo caro al cardinale di Milano Angelo Scola.

L’ostacolo maggiore da superare, a mio avviso, risiede nell’individualismo insito nel nostro modo di vivere la fede. È già tanto se la domenica usciamo di casa per andare a messa. Poi magari diamo qualche contributo in denaro, partecipiamo a qualche evento; sempre mantenendo le distanze però. Non sentiamo la parrocchia, la presenza di qualche comunità religiosa nelle nostre vicinanze, come qualcosa di nostro, qualcosa per cui investire tempo e energie. La Chiesa, percepita fino adesso come un’istituzione che sovraintende a ogni cosa – celeste e terrestre -, deve trasformarsi in una comunità dove i fedeli non sono passivi fruitori ma attivi costruttori dell’edificio comune. Offrire un’ora in settimana per la propria comunità: già questo porterebbe a una rivoluzione. Lasciare spazio alla fantasia, per esempio creando gruppi per gestire gli edifici che si svuoteranno, immaginando un modo diverso di vivere il cristianesimo. Ci vuole un maggiore impegno dei fedeli laici, ma anche più elasticità da parte del clero. Altrimenti staremo a guardare un lento declino.

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