Occorre imparare per saper godere la vita

Atti 13,14.43-52;

Apocalisse 7,9.14b-17;

Giovanni 10,27-30

Una tra le cose più storte che si notano a questo mondo sta nel possedere enormi ricchezze senza saperle godere, o senza essere in grado di amministrarle. E sono ricchezze sciupate. È il caso di quegli anziani che abitano da soli in palazzi antichi e sontuosi, tanto spaziosi che ci si perdono dentro. O di quei proprietari di terreni che si estendono a vista d’occhio, ma non hanno la capacità (o la voglia) di metterli a frutto… E dall’altra parte una moltitudine immensa alla quale anche una piccola parte di quelle ricchezze permetterebbe di vivere dignitosamente, anziché crepare di fame. E allora si conclude che “il mondo è mal spartito”, ed è vero. Gli uomini se lo sono divisi male. Ma queste considerazioni non si limitano al possesso di beni mobili o immobili, coinvolgono anche la vita stessa delle persone. Quando un individuo ha tutto: la salute, il necessario per andare avanti in maniera decorosa, e ciononostante sbuffa e ripete: “Che noia la vita!”, ecco, quello è uno che non sa quale ricchezza inestimabile ha tra le mani.

La prossima domenica di Pasqua è detta “Domenica del Buon Pastore” e il mondo cristiano celebra la Giornata Mondiale delle Vocazioni. La celebrazione non comporta collette di solidarietà, ma “collette” di riflessione e di preghiera. È giusto pregare per questo; Cristo ce l’ha raccomandato: “Pregate il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe”. Ho tuttavia l’impressione che la nostra preghiera non arriverà molto in alto se noi cristiani non impareremo a considerare la vita con altri occhi. Cosa intendo dire? Che la vita – la nostra vita – ci è stata donata; noi non l’abbiamo chiesta né preventivata. Ci ritroviamo a gestire un dono di cui un giorno dovremo rendere conto. Ma non si tratta di un dono inerte: è carico di un tale dinamismo vivo che solo se è spartito e condiviso conserva l’ebbrezza e la bellezza del dono. “La mia vita – afferma in questa Domenica Gesù – io la do per le mie pecore”. E la pagina dell’Apocalisse (seconda lettura), dal canto suo ci presenta proprio lui – Agnello – che ha versato il suo sangue (cioè la vita) per coloro che ama; in tal modo costoro hanno trovato il coraggio di donare anch’essi la vita: per lui e per i loro fratelli. Tra Cristo e i cristiani s’instaura così un dinamismo di donazione a catena che è l’unica novità in un mondo sclerotizzato dagli egoismi e dalle violenze. Una catena che parte da lui e fa camminare la storia in direzioni affidabili, e nella quale ogni anello si lega al precedente e tiene legato a sé il successivo: ogni anello è un vita ricevuta in dono e donata a propria volta. Giovanni, l’apostolo, l’aveva intuito e lo scriveva ai cristiani delle sue Comunità: “Se lui, Cristo, ha donato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo donarla per i nostri fratelli” (1Gv 3,16). Questa è la vocazione. E questa è la consapevolezza da ridestare in noi prima ancora di pregare “il Signore della messe perché mandi operai per la sua messe”.

Stupisce il fatto che nelle nazioni in cui la Chiesa versa in condizioni di povertà o di persecuzione, siano sempre numerose le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, mentre nei Paesi nei quali regnano libertà e benessere scarseggino. Perché mai? Forse perché il benessere sregolato e cercato come l’unico assoluto porta inevitabilmente all’egoismo, a pensare e a vivere unicamente per se stessi. Ma che mondo sarà quello in cui ognuno vive unicamente per se stesso? Quando la vita è gestita come un bene di consumo da godere da soli, allora è come abitare – da soli – in un palazzo troppo grande: si diventa facilmente intrattabili, un po’ eccentrici e nevrotici. È allora che ci si chiede: “Che gusto c’è a vivere?”. Oppure si pontifica, come fanno certuni: “Che fregatura la vita!”. Sì, in effetti, se la vita è solo un bene di consumo ad esclusivo utilizzo personale ne risulta una grossa fregatura. È su questo terreno che noi cristiani dobbiamo trovare il coraggio di essere diversi e testimoniare che la vita invece è vocazione, non fregatura!

C’è urgente bisogno anche tra noi – nella nostra terra trentina – si torni a riaffermare queste cose, da parte di tutti: genitori, catechisti, animatori, dobbiamo ridestare il coraggio di proporre ai ragazzi scelte diverse, anche nella direzione del dono di sé nel sacerdozio, nella vita consacrata o missionaria. Se crediamo nel vangelo e abbiamo un briciolo di fede, questo coraggio già lo possediamo: probabilmente si tratta, appunto, di ridestarlo.

Ma la proposta, oltre che coraggiosa, sarà efficace a una condizione ben precisa: che ciascuno di noi si eserciti realmente a fare della sua vita un dono per gli altri, a partire dalle occasioni concrete e normali che l’esistenza quotidiana gli riserva. Nessuno ne è escluso, nessuno si ritenga esentato: per tutti vivere significa donarsi. Che poi è l’unico modo per godere veramente la vita; lo afferma anche la più elementare psicologia: un bene (qualsiasi bene) goduto da soli, non dà gioia, non dà soddisfazione. Questa è assicurata quando quel bene lo si condivide con altri, cioè insieme. Senza paura di perderlo. “La mia vita io la do per le mie pecore” afferma Gesù in questa Domenica. E l’ha data davvero. È per questo che è risorto. Chi vive donandosi, la vita la perde sì, ma per ritrovarla: per sempre. E in pienezza.

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