Mendicanti di vita

Chiedere scusa rivela la nostra condizione esistenziale. All’Arcivescovile le riflessioni di don Giacomo Canobbio: “Le relazioni vitali e libere sono quelle in cui le persone si accolgono e si ricreano reciprocamente”

Scusa. Parola spesso ridotta a semplice intercalare, ma molto impegnativa se detta sinceramente. Chiedere scusa implica infatti l'atteggiamento umile di chi fa un passo indietro, rinunciando alle sue pretese e al formalismo delle buone maniere. Alla parola "scusa" è stato dedicato l'ultimo incontro del ciclo promosso dal Collegio Arcivescovile che si è concluso con l'illuminante intervento di don Giacomo Canobbio, presbitero della Chiesa di Brescia dal 1970, svoltosi mercoledì 22 febbraio nell'aula magna dell'Istituto a Trento.

"Al principio del nostro esserci c'è un atto di gratuità in virtù del quale siamo stati posti nell'esistenza – ha esordito don Canobbio -, atto che è stampato nella nostra memoria, la memoria profonda di essere fatti che diventa indicativa di una meta e rimanda perciò ad un atto di pienezza che si manifesta quando diamo o cerchiamo un abbraccio. Esso è simbolo della tensione della persona umana quando percepisce la sua esistenza minacciata ed è gesto che comunica parte della forza vitale interiore all'altro, rendendo evidente la nostra condizione strutturale ossia il bisogno di essere sorretti".

Di fronte al pericolo rappresentato da malattie, povertà, solitudine, mancato riconoscimento da parte degli altri, interruzione di relazioni che ci fanno vivere, l'organo più importante del corpo quel è? "Quando subiamo la solitudine, il grido di aiuto che discende dal sentirsi impotenti è apertura a qualcuno che dovrebbe venire in soccorso: abbiamo bisogno di spalle su cui piangere e appoggiarci. Ma la solitudine può essere provocata da noi stessi quando, nella relazione con gli altri, ci poniamo in maniera oppositiva".

Se avvertiamo l'altro come un pericolo, offendiamo per difenderci, ma l'offesa è illusoria affermazione di autosufficienza. "È il tentativo di liberare il campo da un concorrente nella convinzione di ottenere più spazio vitale e sembra espressione di potenza, invece è indebolimento di sé perché, interrompendo la relazione, aumenta la solitudine". Negare le persone e Dio significa perciò tagliarsi fuori dal flusso di vita che promana da essi, ma "da soli è impossibile sopravvivere, il self-made man non esiste".

Su tale sfondo, si comprende cosa significa chiedere scusa: "Con l'offesa tentiamo di cancellare l'altro, ma ci accorgiamo che abbiamo ancora bisogno di lui: la scusa è manifestazione del bisogno di essere sostenuto, riconoscimento della dignità della persona offesa e in questo modo della sua funzione generativa".

La scusa, inoltre, è l'espressione della verità più alta della persona umana perché dice la nostra condizione esistenziale: "Siamo strutturalmente mendicanti e chiedere scusa – ha proseguito – significa essere ricondotti alla nostra condizione di fragilità riconoscendola, diventare capaci di restituire vita e cercare l'esperienza originaria dell'essere fatti vivere a cui accediamo quando siamo perdonati: il perdono è dono portato all'eccesso, come leggiamo nella parabola del padre misericordioso che, non solo ricrea la relazione con il figlio, ma organizza una festa per celebrare il suo ritorno".

Perché è così difficile chiedere scusa? "Buber distingueva tra la relazione io-esso, in cui il rapporto con gli altri è utilitaristico, e quella io-tu nella quale ho davanti un volto: la richiesta di scuse è sempre rivolta ad un tu, è riavvicinamento che ripristina il canale trasmettitore di bene, ma la paura di riconoscere che abbiamo bisogno degli altri e di non essere accolti per quello che siamo ci fa indossare maschere che impediscono rapporti positivi".

Come ritrovare allora pienezza? "Le relazioni vitali e libere sono quelle in cui le persone si accolgono e si ricreano reciprocamente. Le recuperiamo ascoltando il nostro bisogno e lasciando apparire senza paura la nostra identità di mendicante".

Assumendo la responsabilità di aver tenuto un comportamento sbagliato, ci rivolgiamo infine alla libertà dell'altro, ossia alla sua capacità di lasciarsi il torto alle spalle: "Perdonare è atto divino – ha concluso don Canobbio -: Gesù lo propone ai discepoli e questo è il novum del cristianesimo: attraverso il perdono diventiamo collaboratori di Dio nel rimodellare la persona che, offendendo deturpa se stessa e perciò va fermata, ponendo un argine a ciò che le impedisce di essere quella che deve essere: a immagine e somiglianza di Dio".

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