Domande sul fine vita

A volte attendendo la cosiddetta “morte naturale” si sopravvive in un’esistenza completamente artificiale

Di fronte alla morte di Fabiano Antoniani, meglio conosciuto pubblicamente con il nome di “dj Fabo”, ho pensato che il miglior commento fosse il silenzio. Sono contento che la Diocesi di Milano abbia consentito di ricordare Fabo con una liturgia in chiesa. Personalmente, seguendo la riflessione di Norberto Bobbio, mi sento aperto al mistero che ci circonda senza però definirmi credente in una determinata religione. Colgo però un paradosso nell’atteggiamento di molti credenti (o presunti tali): a volte hanno più timore della morte dei materialisti che pure non immaginano una vita ultraterrena. Di più, nell’accanirsi contro chi chiede pietà per la propria esistenza, chi dovrebbe seguire la dottrina della Chiesa dimostra a volte una “spietatezza” che mal si concilia con il sentimento d’amore su cui si fonda l’etica cristiana. Cosa ne pensi?

Pasquale

Grazie della domanda che affronta un tema davvero importante, non solo per il dibattito pubblico (e politico) sulle tematiche di fine vita, ma anche per la nostra esistenza quotidiana. Vorrei partire da un aspetto che hai sottolineato, esponendo sinteticamente la tua posizione. È vero, siamo avvolti dal mistero. Come scriveva Pascoli: “Nella prona terra/ troppo è il mistero”. Qualcosa della vita ci sfuggirà sempre. La scienza non riuscirà mai a spiegare tutto. Neppure la religione non può pretendere di capire completamente il mondo.

L’uomo poi, con la sua libertà, è un mistero ancora più insondabile. Per questo dobbiamo ascoltare la coscienza delle altre persone, senza voler imporre nulla. Occorre avvicinarsi all’altro in punta di piedi, in silenzio, sapendo di avere nei suoi confronti solamente la responsabilità di accoglierlo come uomo. Chi soffre deve essere trattato con ancora maggiore rispetto.

Più passano i giorni dalla morte di Antoniani, più provo fastidio per come è stata trattata la vicenda. Il povero Fabo avrebbe potuto andarsene in un altro modo. Senza riflettori. Senza clamore. Senza quel tristissimo viaggio in Svizzera. La medicina lo aveva salvato da un incidente automobilistico che, fino a qualche lustro fa, non gli avrebbe lasciato scampo. Lo ha mantenuto in vita …, ma a quale prezzo! Io credo che i medici debbano fare di tutto per salvare, ad ogni costo. Tuttavia una persona, capace di intendere e di volere, può anche decidere di non avvalersi o di sospendere qualsiasi trattamento medico, anche se per questo accelererà oppure causerà direttamente la propria morte. Penso che ciascuno, quando veramente non ce la fa più, possa dismettere qualsiasi cura medica. Non credo che sia una questione di pietà, quanto di rispetto. Questa è già una prassi comune in ospedale e anche fuori. I casi concreti ci parlano di situazioni di dolore insopportabile, in cui è già possibile una sedazione palliativa che accelera la morte, ma che in un certo senso accompagna il paziente nel trapasso.

A volte, dietro il paravento dell’indisponibilità della vita, si nasconde la nostra sudditanza alla tecnica, a una tecnica sempre più invasiva e in fondo priva di scopo. Attendendo la cosiddetta “morte naturale” si sopravvive in un’esistenza completamente artificiale. Sono problemi enormi che hanno bisogno di più etica, più sensibilità, più capacità di discernimento. E meno proclami ideologici.

Così mi sembra essere la rivendicazione del diritto al suicidio assistito. A mio avviso lo Stato, una comunità, non può presentare il suicidio come una possibilità sancita dalla legge, addirittura in certi casi persino vista positiva. In nessuna circostanza. Esiste invece l’obbligo di salvare qualcuno che intende farla finita. Se il suicidio fosse un diritto, perché dovremmo costernarci a fronte a chi, sovente per disperazione, decide che la morte sia migliore della vita? Perché non dovremmo invece assecondarlo? La liberalizzazione nel darsi la morte deriva da una pericolosa idea di libertà super individualista per cui gli altri semplicemente non esistono.

Al fondo di questi problemi sta il nostro atteggiamento verso la morte. Hai ragione, a volte sembra davvero che i più intimoriti dalla fine siano i credenti. L’idolatria della vita è profondamente sbagliata. Tuttavia io intravedo un altro paradosso molto diffuso. L’immaginario collettivo, che conserva una pallida immagine della visione cristiana tradizionale, pensa a una sorta di immortalità che ci fa accedere a un paradiso a buon mercato dove saremo sicuramente più felici che in questa terra di lacrime. Ma se la morte ti consente di andare in un posto in cui starai meglio, perché prolungare a tutti i costi un’esistenza fatta di sofferenze? Meglio la morte, ancora meglio una morte dolce, cioè l’eutanasia.

Il messaggio cristiano parla invece di resurrezione che significa soprattutto che questa vita terrena sarà redenta dal dolore, che questo tempo attuale sarà conservato e riscattato, che la nostra storia verrà giudicata e poi trasformata, che il nostro pianto verrà consolato. Sarà la vittoria della vita. A questo punto cito sempre Dietrich Bonhoeffer: “Solo quando si amano la vita e la terra, al punto tale che sembra che con esse tutto sia perduto e finito, si può credere alla resurrezione dei morti e a un mondo nuovo”.

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