Il decalogo del Samaritano

Dt 30, 10-14

Sal 18

Col 1, 15-20

Lc 10, 25-37

Io, in quanto credente nel Dio di Gesù Cristo, so mettere al centro l’uomo? La mia comunità parrocchiale come si pone per sollevare le sofferenze che vede e incontra?

«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti…» (Lc 10,30) inizia così una delle parabole più conosciute raccontate da Gesù. Ed è una delle più terribili, una dura condanna al modo sbagliato di intendere e vivere la religione, che oggi è di una attualità allarmante.

«Un uomo»: non si sa nient’altro di lui; è solo un uomo sfortunato, che ha rischiato la vita. È un uomo del nostro tempo, che magari sui barconi tenta di salvarsi, o che qualche cattivo amico ha avviato alla droga, o che è stato licenziato, perché la fabbrica dove lavorava ha chiuso per aprire all’estero un altro stabilimento, o che è maltrattato in casa o dai troppi bulli che girano per le nostre strade. È un uomo che ha bisogno, perché è nel dolore. Non perché è santo, ma perché soffre! Su quella stessa strada, per caso, passa un sacerdote. Guarda, forse si ferma un attimo, ma non presta alcun soccorso. Probabilmente ricorda la legge che prescrive che un sacerdote «non dovrà rendersi impuro per il contatto con un morto» (Lv 21,1) e che chiunque tocca «un uomo ucciso di spada o morto di morte naturale… Sarà impuro per sette giorni» (Nm 19,16). Per quel sacerdote il rispetto della legge è più importante della sofferenza dei moribondi. E così la persona è sacrificata sull’altare delle leggi e delle norme.

Gesù vede la pericolosità di una simile religione, perché educa a osservare i doveri religiosi, i riti, ma non educa ad avere compassione. E proprio nel sacerdote senza pietà che prosegue per la sua strada, Gesù sferza impietosamente tutti coloro che pensano di amare Dio perché compiono qualche atto religioso: espongono crocifissi, allestiscono i presepi a Natale, sventolano il Vangelo e il rosario, ma non soccorrono gli oppressi, non ospitano gli stranieri e non difendono i poveri. Costoro hanno cancellato dalla loro mente le parole del Profeta: «Sono sazio degli olocausti di montoni… Il sangue di agnelli e di capri io non gradisco… Anche se moltiplicate le preghiere io non ascolterò. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa delle vedove» (Is 1,11-17). È triste costatare che troppe persone religiose sono spesso le meno attive nel combattere le ingiustizie e le più impegnate a sostenere quelle forze sociali che si servono dei poveri piuttosto che servire i poveri, come ci ricorda don Lorenzo Milani. Ma per fortuna su quella strada passa un samaritano, uno straniero, un miscredente, un extra-comunitario si direbbe oggi. Luca racconta la sua compassione con dieci verbi. Dieci azioni perché trionfi la vita: lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, fasciò le ferite, versò olio e vino, lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo, si prese cura, pagò, salderà al ritorno. Questo è il nuovo decalogo, una proposta per ogni uomo.

Martin Luther King commentando questa parabola si chiese: cosa spinse i primi due a non fermarsi a differenza del samaritano? E trovò la risposta pensando a due domande che in situazioni simili ciascuno si può porre: «Che ne sarà di me se mi fermo?». Oppure: «Che ne sarà di lui se non mi fermo?». Il cristiano è colui che si lascia inquietare dalla seconda domanda, che si lascia attraversare dall’interrogativo: «Che ne sarà degli uomini, della pace, del mondo se non mi impegno?». È una domanda fondamentale, perché al centro della religione di Gesù c’è Dio insieme con l’uomo. E non è possibile separarli.

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