Come accogliere quel Dio che viene?

I lettura: Geremia 33,14-16;

II lettura: 1Tessalonicesi 3,12-4,2;

Vangelo: Luca 21,25-28.34-36

La “raccolta differenziata dei rifiuti” ormai non è più una novità: sta diventando abitudine più o meno bene accetta. Giustamente del resto. Resta da vedere se sarà sufficiente a risolvere certi problemi, o a correggere certe storture che stanno a monte. Per il momento ha l’effetto di un calmante: non guarisce, perché a monte vi è un’epidemia che dilaga da tempo, al punto che siamo persino stufi di sentirla denunciare: “consumismo”. A quanto pare, nemmeno la crisi economica è antidoto sufficiente a contenerla. Stiamo soffocando nel consumismo. La terapia affidabile per uscirne è la sobrietà, ma questa non la possono imporre le ordinanze, le leggi o le pubbliche istituzioni. Cos’è che può educare alla sobrietà? Fosse solo per la soddisfazione di rendere più equilibrata e dignitosa la nostra esistenza personale, ben venga la sobrietà, ma sarebbe una ragione piuttosto povera, anzi, decisamente insufficiente per noi cristiani. La provocazione più impellente alla sobrietà è la disperazione di chi fugge dalle violenze a mani nude, di chi per salvare la vita sua e dei suoi cari la espone a rischi inimmaginabili e micidiali. Profughi? Esuli? No, fratelli nostri anzitutto, a prescindere da qualsiasi cultura o appartenenza religiosa. L’angoscia e la preoccupazione di chi – tra noi – si trova sul lastrico dall’oggi al domani, ed è tentato di ricorrere a soluzioni sbagliate o addirittura drammatiche: ecco un’altra provocazione impellente alla sobrietà, sia per chi crede sia per chi non crede. Ma a chi crede, ha ragione san Paolo di augurare in questa Domenica: “Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti”. Per noi cristiani non c’è sobrietà che non vada a braccetto con solidarietà.

Stiamo entrando nel tempo dell’Avvento. Si può imparare a vivere con sobrietà solo se ci sono buoni motivi per farlo (e li abbiamo); proprio come si sta svegli allorché si nutre una grave preoccupazione, o si aspetta qualcuno che sta molto a cuore. I cristiani, a differenza di altri, credono in un Dio che viene… Viene quando meno lo si aspetta, per strade che non si immaginano, ed è così sorprendente il suo modo di presentarsi che si rischia di non riconoscerlo nemmeno. Ecco perché oggi in questa domenica è pressante la raccomandazione: “State attenti a voi stessi!”. Cosa si intenderà con questo? Che la vostra coscienza non si addormenti, che il bisogno di spiritualità che c’è in voi non venga soffocato. Attenti a non cadere nella mediocrità, nella tiepidezza: quel vivere insipido e senza senso che non è altro che buttar via la vita (in tal caso ai bidoni della raccolta differenziata se ne dovrebbe aggiungere un altro: “vite sprecate”). Jovanotti cantava: “L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentir niente”. “State attenti a voi stessi!” ha tutto il tenore di una scossa: riusciamo a sentirla? Ma poi, per evitarci il rischio di considerarla un’innocua teoria, Gesù esemplifica: “Che i vostri cuori non si appesantiscano!” raccomanda. E com’è che si appesantiscono i cuori? “Con le dissipazioni, con le ubriachezze, con gli affanni della vita!”. Non riteniamoci vaccinati, immuni da questi pericoli: non lo siamo affatto. Se il vangelo parla di dissipazioni, noi oggi parliamo di consumismo: ecco ciò che dissipa la vita, la fa disordinata, sregolata, come una trottola che gira vorticosamente su se stessa… Dissipazioni? Altroché se ne siamo minacciati! E poi le ubriachezze. “Beh, questo no… – si dirà – non siamo affatto degli alcoolizzati”. Piano con certe conclusioni: ci si può ubriacare anche senza alcool. Il cercare soddisfazioni immediate, veloci, anziché coltivare ideali più elevati, più umani, più solidali, cos’altro è se non ubriacarsi? Poi, stando al vangelo, ci sono gli affanni della vita che possono subentrare e appesantire il cuore. Sono quelli che mettono fretta, provocano tensione, a volte giustificate e doverose, ma altre volte decisamente no. Non di rado tensione e fretta nascondono solo paura: la paura di fermarsi, perché fermarsi vuol dire far silenzio, sollevare lo sguardo, guardarsi attorno, e dentro, nell’intimo. Anche nella Chiesa (parrocchie, comunità) a volte si rischia l’affanno: perché c’è tanto da fare, perché le risorse umane diminuiscono, perché… si cede alla mediocrità, cioè quella tiepidezza che fa venire il voltastomaco a Dio stesso. “Vigilate pregando – conclude il Signore – perché abbiate forza di sfuggire a questi pericoli…”. Pregare vuol dire prendersi momenti di tempo da donare a Dio, ma momenti svegli, non di sonnolenza o di dormiveglia. Pregare è come fare il pieno di ossigeno (per non rischiare di morire asfissiati). Pregare è volare alto. La preghiera è quella bella occupazione che ci evita di soffocare nella banalità e nel pessimismo. Non solo: intenerisce il cuore, lo mantiene grande, sensibile. Chi prega vive ad occhi aperti e impara a vedere tutto come lo vede Dio: situazioni, persone e cose. Chi prega, non rischia di trovarsi il pelo sul cuore, o di sentirlo pulsare appesantito da dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita, perché è Dio stesso che glielo alleggerisce: ogni giorno. Sì, noi crediamo in un Dio che viene… Quando meno ce l’aspettiamo? per strade che non immaginiamo? No, ora – oggi – non lo possiamo più dire. Possiamo solo accoglierlo. Perciò: disponiamoci a farlo. E quindi: “Buon Avvento”.

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