Cos’è che fa piacere a Dio?

Genesi 18,1-10a;

Colossesi 1,24-28;

Luca 10,38-42

Non si bada a spese quando si vuol bene a qualcuno. La generosità conosce tante forme, tante fogge. C’è la generosità dei bambini, i quali vanno educati a quelle rinunce che chiamiamo i “fioretti”: per aiutare i bambini più poveri di loro, diciamo, ed è vero, ed è giusto. C’è quella di noi adulti: quando siamo toccati a livello di cuore, sappiamo essere generosi tutti, o quasi tutti; diamo qualcosa di ciò che è nostro: chi di più, chi di meno. A volte non si tratta di soldi, di cose tangibili; sovente si tratta di disponibilità: di tempo, di servizio. Penso, ad esempio, a tutti quelli che operano nell’ambito del volontariato. La gratuità, il saper donare, è segno di nobiltà d’animo, ma prima ancora è indice di maturità, di equilibrio personale. Chi non sa donare gratis un po’ del suo tempo, un po’ della sua competenza, non è ancora una persona matura, equilibrata. Anche nell’esperienza della Fede è importante il dare con gratuità; in fondo, noi cristiani siamo tutti destinatari di doni: la vita che abbiamo, la Fede che condividiamo, la grazia e la luce che troviamo a ogni Eucaristia, tutto è dono. Donare, da parte nostra, è un po’ contraccambiare quei molti doni che riceviamo da Dio. E, si sa, donare agli altri – specialmente a coloro che sono in qualche necessità – per noi è come donare a Dio. Ma a lui in persona cosa possiamo dare? È bello sapere che Lui considera fatto a sé quello che facciamo al nostro prossimo, ma c’è qualcosa che possiamo dare a Lui direttamente?

Abramo, il nostro padre nella fede, un giorno ha avuto Dio nientemeno che come ospite nella sua tenda e da bravo orientale ha saputo accoglierlo come si deve. Gli offrì l’acqua per lavarsi, bevande fresche per dissetarsi, gli preparò anche un ottimo spuntino. E Dio gradì tutto questo, e dal momento che non si lascia superare in generosità, promise ad Abramo che di lì a un anno gli sarebbe nato quel figlio che attendeva da tanto tempo. E così avvenne. Ma è stata proprio quell’accoglienza ospitale la cosa più bella che Abramo potè donare a Dio? Quanti credenti ricchi gli han fatto generose offerte nel corso della storia! Certuni gli hanno costruito chiese, conventi… (anche nel tentativo di scaricarsi la coscienza da certe malefatte che avevano combinato!): ma son queste le cose che Dio attende da noi? Stando al vangelo della prossima domenica è tutt’altro ciò che gradisce.

Gesù è in casa di Marta e Maria, le sorelle del suo amico Lazzaro. La prima – Marta – è tutta indaffarata nel preparare un pranzo “coi fiocchi”; l’altra, Maria, invece che aiutare la sorella in cucina, se ne sta seduta ai piedi di Gesù ad ascoltarlo. Lui fa capire di gradire molto questo atteggiamento, più che non quello di Marta, che si arrabatta tra pentole e fornelli. A questo punto non si pensi – come tanti han fatto in passato – che Dio apprezza di più quelli che si dedicano alla contemplazione in qualche monastero, anziché quei tali che invece si danno le mano d’attorno lavorando ogni santo giorno, magari per soccorrere poveri, ammalati e derelitti, oppure più semplicemente per mandare avanti la famiglia. No, Gesù fa chiaramente intendere che l’accoglienza più bella da riservare a Dio non è fatta di prestazioni particolari (che hanno come non ultimo scopo quello di evidenziare il nostro protagonismo…), ma consiste piuttosto nel portare alla sua presenza noi stessi, nel mettergli a disposizione la nostra persona, la nostra vita così com’è realmente. Insomma, a Dio non si dà qualcosa, a Dio si dà se stessi. Perché lui non ha dato qualcosa a noi: ha donato e dona in continuazione se stesso; l’Eucaristia ne è la prova.

San Paolo era uno che, quanto a darsi da fare per Dio, non era secondo a nessuno. A un certo punto s’accorse che le sofferenze, le prove e le persecuzioni che doveva affrontare, ostacolavano non poco il suo darsi da fare… E allora comprese: alle sue Comunità egli era più utile con le sue sofferenze che con il suo molto darsi da fare. E lo scrive ai cristiani di Colossi: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi: completo nella mia persona la passione di Gesù, a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa, cioè tutti voi…”. Sì, quando a Dio si offre non qualcosa ma se stessi, si è degni collaboratori di Cristo crocifisso: niente nella vita di Gesù è stato così vantaggioso per l’umanità quanto il suo donarsi al Padre nell’impotenza della croce.

Eravamo partiti con Abramo. Niente era stato più gradito a Dio di quella fiducia incondizionata che gli aveva dimostrato quel giorno in cui si era sentito dire: “Parti dalla tua terra e va’ dove ti dirò io”… Quel giorno aveva messo a disposizione di Dio se stesso, la sua persona, il suo futuro, tutta la sua vita. Il messaggio mi pare ben chiaro per tutti: non si creda di far piacere a Dio dandogli qualcosa: non ne ha bisogno. Dio vuole noi stessi, per entrare in amicizia, in comunione con noi. Portiamo davanti a lui la nostra persona, la nostra attenzione, l’ascolto, la disponibilità a lasciarci plasmare dalla sua Parola. È questo ciò che lui si attende. È questo che gli fa piacere.

A un Dio che ci dona se stesso non possiamo far altro che cercare di contraccambiare allo stesso modo.

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