Credenti e non credenti di fronte alla morte. E alla vita

Caro Piergiorgio, nel tuo ultimo libro, citi una frase di Carlo Maria Martini: “Nella morte siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui”. Forse non sono le parole più umane che il vescovo ci ha lasciato: ho conosciuto persone che vivono e muoiono con dignità, senza credere in Dio. Il cristiano è però autorizzato a confidare: “Il Signore non mi ha ancora chiamato perché devo fare ancora qualcosa in questo mondo”. Qual è la differenza di fronte alla vita e alla morte fra chi crede in Dio e chi crede solo nell’uomo?

Silvano Bert

Di fronte alla morte siamo tutti uguali. Non soltanto perché quello è il destino che attende ricchi e poveri, potenti e diseredati, intellettuali e analfabeti, credenti in qualche religione o naturalisti senza fede, ma soprattutto perché la morte resta un mistero insolubile. In fondo ciò che ci rende umani è proprio la consapevolezza della nostra mortalità: di fronte ad essa siamo sgomenti, in quanto, unici tra gli esseri viventi, sappiamo dell’inevitabile termine della nostra vita individuale e nello stesso tempo percepiamo che non dovrebbe essere così, che le nostre aspirazioni tenderebbero a altro. Benché, a livello biologico, se non ci fosse la morte non ci sarebbe neppure la vita, vorremmo evitare a tutti i costi il naturale spegnimento della nostra esistenza. A mio avviso la morte è un così grande enigma proprio perché in essa si specchia tutto il paradosso della condizione umana: fragilità costitutiva e sete di infinito; insignificante piccolezza e desiderio di pienezza.

Ugualmente sappiamo che la meditazione sulla morte sta alla base del nostro apprendistato della vita, del nostro approccio verso il mondo. La morte è davanti a noi e forse potrebbe anche aiutarci a vivere. La sapienza antica di ogni civiltà affronta questa preparazione alla morte, nella certezza che questa riflessione è fondamentale per vivere bene.

Oggi la situazione sembra essere profondamente cambiata. Mi riferisco soltanto dalla cultura occidentale di matrice cristiana. Negli ultimi secoli abbiamo assistito al crollo della visione tradizionale religiosa della morte e dell’aldilà: non serve essere troppo anziani per ricordare quanto la predicazione della Chiesa insistesse sul terrore del giudizio divino e sulla minaccia dell’inferno; di converso una svalutazione (io oserei dire al limite dell’eresia) della bellezza e della bontà della vita rendeva la morte auspicata, attesa come la liberazione da una esistenza fatta di dolore e soprattutto di tentazione e di peccato. Tutto questo è caduto nel giro di pochi decenni.

Nel frattempo si faceva strada una visione per così dire laica della morte: la fine della vita è un evento naturale, perfettamente coerente con la nostra biologia, occorre accettarla in questo modo senza caricarla troppo di significato. Godiamoci la vita invece, senza sensi di colpa, senza illusioni e speranze in divinità più o meno potenti, senza troppa paura, perché in fondo, a un certo punto, morire è anche doveroso, giusto, necessario per fare posto alle nuove generazioni. Così della morte si parla sempre di meno. La guardiamo comunque ma mai in faccia.

Parlando di cristianesimo credo che nel corso dei secoli si sia perso l’annuncio positivo di vittoria sulla morte, che poi sarebbe il cuore del messaggio di liberazione di Gesù Cristo. La morte è stata vinta con la risurrezione. Una persona è liberissima di non credere a questo annuncio: per fortuna non esiste più il tribunale dell’inquisizione. Tuttavia chi non crede alla risurrezione, non può dirsi cristiano. Ovviamente questo non può ridursi al pronunciamento di un dogma formale che non ha più nessuna influenza nella vita concreta. È molto difficile, anche per un credente, parlare di risurrezione. Ma è questo l’orizzonte imprescindibile in cui si situa la nostra fede.

Ciò non vuol dire che i credenti sono più fortunati e hanno più speranza di quanti, agnostici, materialisti o atei, hanno un’altra visione della morte. Tutti possono affrontarla con pari dignità. Dietrich Bonhoeffer ha affrontato la morte con grandissima fede e fiducia, perché amava la vita e amava Dio nella pienezza della vita, nella gioia, nella salute e non solo nel momento in cui non c’è più niente da fare. Penso che un cristiano, al momento della morte, debba affidarsi completamente a Dio. Forse questa è la differenza tra un credente e un non credente: il primo spera in Qualcuno a cui tendere la mano.

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