Debito e inflazione, farmaci e veleni

Negli ultimi tempi due spettri fra i più angoscianti per la nostra economia sono ricomparsi alla grande: il debito pubblico e l’inflazione.

Il primo, oltrepassato il livello di 2.700 miliardi, se la dovrà vedere con tassi d’interesse più alti e ristrettezze nel collocamento dei titoli di Stato, ma ciò non sembra turbarci. Forse siamo ancora tranquillizzati dall’idea del «debito buono», lanciata lo scorso anno dal Presidente Draghi, cioè «il debito che si ripaga con la crescita», una formula cara ai nemici dell’austerità.

In realtà quell’idea, più che opposta alle politiche di rigore, è nata da condizioni diverse: non più la sfiducia dei mercati (come ai tempi del governo Monti) ma un contesto più stabile, con bassa inflazione e sostegno solidale dell’Europa per il rilancio dell’economia anche con nuovo debito.

L’attuale surriscaldamento dei prezzi configura uno scenario ulteriore. Il nostro debito pubblico potrà trarne un temporaneo vantaggio: si stima infatti che il suo peso reale si stia svalutando, per il carovita, più di quanto cresca la spesa per interessi, con un beneficio netto di 35 miliardi (come riferisce Salvatore Liaci su Osservatorio CPI, Unicatt, 25 giugno). Ma resta un macigno, che gli atti ufficiali del Governo prevedono di ridurre entro la fine del decennio.

All’inflazione, dal canto suo, concorrono l’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia, la ripresa della domanda e l’ampia circolazione monetaria.

La spirale inflazionistica fa molta paura agli U.S.A., dove Paul Krugman teme che possa far ringalluzzire i «sado-monetaristi», cioè quelle persone che esigono «sempre tassi d’interessi alti e una rigida austerità fiscale, a prescindere dalle condizioni dell’economia» (La Stampa, 27 giugno).

In effetti, l’inflazione si può domare anche con misure non repressive, come il ricorso a fonti energetiche alternative o l’aumento della produttività (più offerta per compensare la domanda), specie in un sistema, come quello europeo, che fino a pochi mesi fa temeva la deflazione. C’è dunque un livello inflattivo che fa bene alla crescita (per l’UE è il 2 per cento) e allevia il peso dei debiti. Facendo il verso a Draghi, potremmo affermare che c’è anche un’«inflazione buona»; ma non è quella attuale, che invece è una seria minaccia.

Debito e inflazione possono dunque assumere scambievolmente la veste di mali e di rimedi: dipende dalle condizioni, dai livelli e dalla qualità dei controlli. Sostiene l’abate, il personaggio di Giulio Dellavite (Se ne ride chi abita i cieli, 2018): «Il caduceo rappresenta la farmacia perché ci ricorda che ogni ingrediente può essere allo stesso tempo medicina o veleno. Tutto dipende da come, quando, quanto ne viene utilizzato, e in combinazione con che cosa. Il caduceo era lo scettro del dio greco Ermes e raffigura l’equilibrio fra il bene e il male, tra la grazia e la condanna, tra il farmaco e il veleno».

Per tenere buoni debito e inflazione serve un’azione di governo non imbrigliata in scontri fra tifoserie politiche, che possa dedicarsi al necessario mix di misure equilibrate, praticabili e graduali, per tranquillizzare i mercati e non uccidere il malato.

La scrematura di spese improduttive, burocratismi e opere inutili, la focalizzazione di investimenti sulla salute, la crescita, i saperi e la transizione ecologica, e robuste tirate d’orecchi a evasori fiscali e lavativi, saranno molto più utili di qualunque sventolio di bandiere.

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