D’estate anche il meteo divide

Nemmeno il meteo, ci salva più. Persino l’argomento più neutro di tutti, quello delle conversazioni leggere (“parlare del tempo”, si dice quando con l’interlocutore non si vogliono affrontare argomenti delicati) è diventato tema divisivo, si è trasformato in motivo di scontro tra coloro che sono preoccupati per i cambiamenti climatici e coloro che rispondono che il caldo in estate c’è sempre stato, così pure i temporali, che non bisogna creare allarmismo. Nell’Italia dove nemmeno l’evidenza riesce a evitare il muro contro muro, meglio, dunque, non parlare nemmeno del tempo, per non rischiare di finire annoverati tra le schiere degli “allarmisti” o tra quelle dei “negazionisti”. Tutti siamo diventati esperti di meteo: sono lontani i tempi del colonnello Bernacca che, prima del telegiornale della sera, illustrava il senso di quelle curve disegnate sulla lavagna – le isobare – che portavano pioggia o bel tempo. Oggi non abbiamo più bisogno di capire, ci basta sapere. Siamo sommersi di informazioni sul tempo: su quello che c’è oggi e quello verrà, magari con previsioni che puntano ai quindici giorni.

L’annuncio della pioggia arriva con i bollettini delle allerte, gialla o arancione; i sistemi di previsione sono affidati ai computer, ai satelliti e all’intelligenza artificiale; i siti web dedicati al meteo sono in assoluto tra i più frequentati. Le notizie arrivano in tempo reale, con i video a documentare l’accaduto: la pioggia, le grandinate, le nevicate, le alluvioni, i fiumi in secca, lo scioglimento dei ghiacciai, il vento che abbatte le foreste, le strade dei paesi trasformate in torrenti. Non c’è giornale o telegiornale che, quotidianamente, non riservi almeno una notizia
al meteo: sappiamo tutto e vorremmo saperne ancor di più, interrogando compulsivamente le app dello smartphone. L’innovazione tecnologica ha cambiato la nostra vita e ci appare incredibile che solo pochi decenni fa si dovesse fare i conti con difficoltà di collegamenti e assenza di informazioni. Nel 1966, in occasione del disastro del 4 novembre, intere zone del Trentino rimasero isolate per giorni: non si avevano certezze né sul numero delle vittime, né sull’ammontare dei danni. Erano gli anni della grande trasformazione, del “miracolo economico”, ma ancora era difficile avere notizie se le strade diventavano impercorribili e se i pochi telefoni venivano messi fuori uso.

Così come era avvenuto anche a fine Ottocento, con la disastrosa alluvione di metà settembre del 1882. I giornali dell’epoca ammettevano di non avere notizie “al di fuori” della città. Qualche accenno alla situazione di Rovereto (dove il Leno aveva spazzato via tre mulini), della zona del Garda e della Valsugana. Non c’erano previsioni per il giorno dopo (il cronista si affidava al barometro e alla propria capacità di leggere il movimento delle nuvole) e non c’erano nemmeno sistemi di allarme. In caso di pericolo per la tenuta della serra di Ponte Alto (lungo il corso del torrente Fersina, alle porte della città) le autorità avevano messo in campo un sistema di allerta piuttosto complesso. Racconta la “Gazzetta di Trento” del 17 settembre 1882, che tre cannoni erano stati posti sulla collina: uno presso il convento dei frati, alla Busa; uno presso il ponte di Povo; il terzo era stato collocato proprio nei pressi di Ponte Alto. Un colpo di cannone avrebbe dato il segnale dell’allarme, tutti quelli che si trovano a valle erano invitati a ripararsi in zone sicure.

Oggi, ogni allarme viene dato utilizzando i sistemi di messaggistica: sono le stesse autorità ad utilizzare forme di comunicazione che raggiungono tutti. E gli stessi cittadini sono in grado di documentare cosa sta succedendo, tutti possono produrre dei video e, soprattutto, sono in grado di condividerli. Con il paradosso che le immagini possono arrivare a tutti prima ancora di sapere cosa è successo. WhatsApp e Telegram sono stati i grandi protagonisti della recente emergenza in Romagna. Sui canali social non correvano solo le notizie, non si susseguivano solo le richieste di aiuto (con tanto di geolocalizzazione per indicare il posto esatto dove veniva chiesto l’intervento della protezione civile), ma sono stati anche lo strumento utilizzato dai volontari per mettersi a disposizione, per formare le squadre, per coordinare gli interventi. I social, dunque, come la grande bacheca dove informarsi, chiedere aiuto o mettersi a disposizione.

Ma anche strumento per una narrazione sempre più semplificata, che evita di affrontare le complessità. Tutto risulta parcellizzato, assume importanza ciò che riusciamo a documentare oggi, ieri non importa, domani vedremo. I social fanno vivere il momento, non ci immergono nella dinamica più ampia del tempo (cronologico) e di quella – spesso ben evidente – del meteo: non si considerano le medie del periodo, le frequenze dei picchi, la sequenza dei nuovi record. I social, in questi casi, non hanno memoria, non producono statistiche. Si limitano a registrare il momento. Al punto che risulta persino facile concludere che, in estate, il caldo (torrido, con grandinate mai viste), non è una notizia e bisogna smetterla di preoccuparsi.

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