Folle è l’amore di Dio

I lettura: 2Cronache 36, 14-16.19-23;

II lettura: Efesini 2,4-10;

Vangelo: Giovanni 3,14-21

Come si potrebbe vivere senza amare e senza essere amati? Cosa sarebbe la vita senza l’amore? Certo, dipende anche dalla qualità dell’amore. Ci sono manifestazioni d’amore piuttosto deboli e fragili: stagionali, insomma, provvisorie. La nostra è stata definita l’epoca del “pensiero debole”, cioè quella in cui i grandi ideali sono scomparsi dall’orizzonte. Forse potremmo dire che è anche l’epoca dell’amore debole… Noi cristiani, e noi preti in particolare, ci ostiniamo a ripetere che Dio ci ama, che il suo amore è eterno, inesauribile. È dai tempi di san Paolo che andiamo dicendo che “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo…ci ha fatti rivivere con Gesù”. Ma sarà vero? È credibile quello che diciamo? Chi ci ascolta, cosa penserà? A guardare il mondo, e a come vanno le cose a questo mondo, c’è da restare frastornati, increduli… Ciononostante, la bella notizia della prossima domenica suona proprio in questi termini: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito.”

La Quaresima, ormai lo sappiamo, è un viaggio di conversione che conduce alla Pasqua. Conversione però non è solo questione di condotta, di azioni cattive da correggere e far diventare buone. Conversione è prima di tutto “cambio di mentalità”, di modo di pensare. Anche nel modo di pensare riguardo a Dio occorre fare una conversione, perché è troppo facile cadere in immaginazioni grossolane, superficiali, e perciò stesso sbagliate. Un po’ come capita di fare con le persone: fin che le si guarda da lontano, accade di formulare su di loro giudizi superficiali; nel momento in cui si annullano le distanze e si entra in familiarità, non di rado ci si accorge che sono molto diverse da come le si considerava…

Noi riusciremo a convertire i nostri atti, la nostra condotta, solo dopo che avremo corretto, convertito, i nostri modi di pensare su Dio. E io credo che per capire l’amore di Dio non basta guardare come vanno le cose a questo mondo; non basta nemmeno osservare la nostra personale esperienza di vita o quella della nostre famiglie. Per credere, per “vedere” l’amore di Dio, occorre portarsi davanti al Crocifisso: sostare, guardarlo, contemplarlo.

Nel vangelo di questa domenica è Gesù stesso a parlare di sguardi che si sollevano, di occhi che si alzano: verso dove? Verso chi?

Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo…”. Allude a quegli Ebrei che, insieme a Mosè, attraversavano il deserto e, tra tutte le prove che dovevano affrontare, c’era anche quella dei serpenti velenosi e micidiali. Dio suggerì a Mosè di forgiare un serpente di bronzo e di innalzarlo sopra un palo: chi lo avesse guardato invocando Dio con fiducia avrebbe trovato salvezza.

Ebbene, “come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo…”. E’ Gesù questo figlio dell’uomo; parla di se stesso, della sua prossima fine… che vista dalla parte di Dio non è affatto una fine ma un traguardo, un progetto che arriva a compimento. Gesù, innalzato sulla croce, è l’unica dimostrazione tangibile e credibile che Dio ama davvero questo mondo. Lo ama con i suoi limiti, con i suoi errori, lo ama anche se si sente rifiutato ed estromesso. Lo ama perché vuole salvarlo.

A noi verrebbe più facile denigrare un certo tipo di mondo e scuotere la testa amareggiati su tutti gli orrori e le crudeltà che continua a produrre; ma Dio lo ama nella sua globalità, fino al punto da donare il suo Figlio, perché quanto più è forte l’amore, tanto più è alto il prezzo che richiede. Quel Figlio poi (cioè Gesù), è tutt’altro che vittima obbligata d’un cieco volere paterno (“Che padre è quello che mette a repentaglio la vita di suo figlio?” potrebbe obiettare qualcuno): l’amore appassionato per questo mondo trova una tale sintonia tra Padre e Figlio che è tutto quanto Dio (ci si passi l’espressione!) che si dona, che soffre, che muore in Gesù.

A questo punto, nessuna cattedra, nessun sacerdote, nessun profeta, nessun educatore o genitore, potrà parlare degnamente di Dio prescindendo da questo amore senza misura. Nemmeno il male, nemmeno il più tremendo dei peccati potrà impedire a Dio di amarci, anzi, potrà solo rivelarci quanto è ostinato, “folle” quell’amore. E di tutto questo, la croce è la prova, la dimostrazione: “essa abbassa il cielo fino a noi e innalza noi, con tutte le nostre miserie e povertà, fino a Dio” (L. Zani). E’ la via dell’amore insomma: per questa via Dio viene a noi e per questa stessa via noi possiamo arrivare a lui. Ecco perché non si può credere all’amore di Dio, se non fermandosi davanti al Crocifisso. Ed è opportuno fermarsi spesso, se non si vuol finire – come gli ebrei nel deserto – vittime del veleno che insidia in molti modi la nostra vita anche al giorno d’oggi: il veleno del dubbio, del risentimento, della paura e dell’angoscia che possono portare alla disperazione… Dio lo conosce il rischio che corriamo. Se “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, è perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna”.

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