Giubileo? Sì, ma ora dipende da noi…

I lettura: Neemia 8,2-4a. 5-6.8-10;

II lettura: 1Corinzi 12,12-30;

Vangelo: Luca 1,1-4;4,14-21

Quando si va in città, si passa davanti a molti negozi: di abbigliamento, di suppellettili, di strumenti elettronici i più svariati… e ognuno sosta almeno qualche istante davanti alla vetrina che più gli interessa. Molti solo attratti proprio dai negozi di abbigliamento: guardano, se sono in compagnia fanno qualche commento (“quel vestito è proprio bello…guarda com’è originale quell’altro accanto…”). Sì, però, fin che rimane in vetrina è quel vestito, quell’abito; bello fin che si vuole ma è semplicemente quello. Il giorno in cui entro, lo provo e lo compro, diventa mio. Lo guardo con altri occhi, mi ci affeziono perfino: infatti è il mio vestito. Credo che le parole siano un po’ come i vestiti: le sentiamo, le leggiamo, magari le usiamo anche, ma non sempre sono nostre, anzi, raramente lo sono davvero. C’è per esempio una parola che indica una brutta malattia, i medici la descrivono con termini molto precisi, ma noi la pronunciamo semplicemente così: “tumore”. “Hai sentito? Quello ha un tumore… poveretto!”. Sì, però di solito questa parola non è nostra, sentiamo che appartiene a qualcun altro. Ma il malaugurato giorno in cui quella brutta malattia prendesse me, eh allora sì che la parola “tumore” ha un suono diverso sulle mie labbra! Allora diventa mia. Ma perché non portare un esempio bello e positivo piuttosto? Eccolo: la parola amore. Chi non l’ha pronunciata, almeno qualche volta? Tutti l’hanno detta e la ripetono, ogni persona la conosce: sì, ma quand’è che diventa sua e le appartiene? Quando s’innamora. Un giovane, una ragazza, è ovvio che conoscono la parola amore, ma è quando s’innamorano che quella parola prende un significato davvero vitale: appartiene proprio a loro, come se l’avessero inventata e nessun altro la conoscesse. E così è per una mamma e un papà allorchè, per la prima volta, si stringono tra le braccia il loro bambino appena nato. Insomma sì, è così: conosciamo, sentiamo, diciamo tante parole, ma solo in certe situazioni di vita diventano veramente nostre.

Gesù, arrivato all’età di 30 anni, aveva cominciato a girovagare per i paesi della Galilea (la sua patria), dicendo alla gente che Dio stava costruendo il suo Regno in questo mondo. Non si limitava alle belle parole, faceva anche certe cose straordinarie, come guarire malati, cambiare l’acqua in vino a una festa di nozze, al punto che la gente commentava: “Ma allora è proprio vero che Dio è in mezzo a noi!”. Un giorno tornò al suo paese, era di sabato, e il Sabato gli ebrei fanno festa, come noi cristiani la domenica. Vanno in sinagoga, dove c’è qualcuno che proclama le letture della Bibbia, proprio come facciamo noi alla Messa. Finite le letture, quel tale tiene la predica: di solito è uno del villaggio che probabilmente conosce la Bibbia un po’ meglio degli altri.

Quel giorno dissero a Gesù: “Oggi fai tu. Dicono in giro che sei così bravo… Fai tu oggi!”. Forse c’era anche Giuseppe ad ascoltare, e Maria (in disparte con le donne), senz’altro emozionati nel vedere quel loro figlio parlare lì davanti a tutti (quale genitore non lo sarebbe?).

Gesù prese il rotolo del profeta Isaia (i libri, allora, erano rotoli di pergamena): lo aprì e lesse queste parole: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”.

Sì, le avevano già sentite tante volte queste parole. E ogni volta si chiedevano: “Chi sarà mai questo tale, pieno di Spirito del Signore, che verrà a compiere tutte quelle belle cose? E poi, quand’è che verrà? Sono secoli che l’aspettiamo!”. Poi Gesù riavvolse il rotolo, lo consegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Cos’avrà mai da dire il figlio di Maria e di Giuseppe? Ha sempre fatto il carpentiere! “Sta a vedere che oggi ne sentiremo delle belle!”. Sì, infatti è così. Gesù fa la sua predica, breve (una frase sola!), ma di una carica… che solo da lui poteva venire. “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato!”. Era come dire: “Le parole che ho letto, antiche, sentite tante volte, passate sopra le vostre teste, ebbene no: oggi – se vorrete – diventano vostre, perché io sono qui per realizzarle. Ci sono poveri tra voi? Io ho un lieto messaggio per loro… Ci sono prigionieri? (Gesù non allude a quelli dalle manette attorno ai polsi: la prigionia peggiore è quella di chi ha le catene attorno al cuore!). Io sono qui per liberarli. Ci sono ciechi? (Oh, i non vedenti ci vedono meglio degli altri a volte. I veri ciechi si portano l’oscurità dentro, nell’intimo!). Io sono qui per dar loro la luce. Insomma, le parole che tante volte avete sentito, oggi possono diventare vostre”. Come la parola amore quando ci si innamora. E cosa vorrà insinuare l’evangelista Luca con questa storia? Un insegnamento, che può diventare convinzione per tutti quelli che vanno a Messa la domenica: quando ci ritroviamo insieme e c’è Gesù tra noi (cos’altro è l’Eucaristia se non questo?) le parole che sentiamo possono passare sopra le nostre teste oppure entrarci nel cuore: dipende da noi. Afferriamone qualcuna (non tutte, è impossibile) e ravviviamo la convinzione: “Questa Gesù la dice a me”. Se ce la porteremo nel cuore, lui stesso la realizzerà. Allora sarà davvero “Giubileo”, anno di grazia del Signore.

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