Il piccolo Charlie e il diritto di vivere… o di morire

Bisogna fare attenzione a non sovrapporre la “vita” all’esistenza biologica

Sono rimasta colpita dalla vicenda del piccolo Charlie. Il suo visino, così simile a quello dei miei bimbi quando erano appena nati, mi ha commosso. Ho provato empatia per i genitori, aggrappati alla speranza di ridare la vita al loro bambino portandolo negli Stati Uniti. Il desiderio di generare è una forza in grado di superare qualsiasi difficoltà. Hanno trovato il denaro, hanno mosso le coscienze, ma non è bastato: il diritto di morire sembra prevalere sul diritto di difendere la vita del proprio figlio. Va contro natura. Cosa ne pensi?

Claudia

Molti si sono posti domande su una vicenda dolorosa e difficile, su cui molti – troppi – si sono lasciati andare a commenti fuori luogo. Ce lo siamo detti spesso: di fronte a casi estremi, come quello del “piccolo Charlie”, è necessario prendersi un po’ di tempo per pensare, per valutare attentamente i contorni di episodi di non semplice lettura. Occorre rendersi conto che, in queste occasioni, è arduo tracciare una linea di demarcazione ben definita tra buoni e cattivi. Il confine tra giusto e sbagliato è labile.

Alcuni dicono che la vita deve essere salvata a tutti i costi e con ogni mezzo: vero, ma anche su questo versante ci sono molte sfumature possibili. Il discorso si complica quando utilizziamo il concetto di “natura”, scivolosissimo e ambiguo, abusato anche da certa sensibilità cattolica.

Venendo al caso in questione, il circuito della stampa internazionale – che diventa circo in Italia – ha dato una versione univoca ed estremista: i perfidi medici contro i disperati genitori. La fredda giustizia contro l’empatia della gente comune. La cultura della morte che si diffonde. A mio avviso però, almeno questa volta, il presunto “diritto a morire” c’entra poco o nulla. Prima di emettere sentenze anche noi osservatori da lontano dobbiamo fare una lunga istruttoria senza essere troppo coinvolti emotivamente.

I medici inglesi non sono carnefici. Il bambino è nato con una gravissima malattia. Le sue condizioni erano subito apparse senza speranza. Continuare con terapie invasive era, secondo i sanitari di quel rinomato ospedale londinese, un accanimento inutile. I medici hanno cercato di convincere i genitori che però, probabilmente mossi dalla responsabilità e dal desiderio (“di accompagnarlo e curarlo fino alla fine” come ha detto il Papa nel suo invito alla preghiera) che tu hai così ben descritto, chiedevano a tutti i costi di perseverare nei trattamenti. Per ragioni che ignoro – ma che pure devono essere state ponderate – i medici si sono rivolti ai giudici, ritenendo che nel comportamento dei genitori ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato e che addirittura ledeva il maggior interesse del bambino. Sono nodi giuridici intricatissimi. Certamente desta grande perplessità e preoccupazione (anche perché può alimentare quella posizione pro eutanasia affermata con legge nella cultura di vari Paesi) e sembra stridere con il senso comune la decisione che “l’interesse” di una persona sia quello di lasciarla morire.

Pure una decisione opposta però – quella di far vivere ad ogni costo – presenta, a mio parere, grosse aporie. Perché sottoporre un neonato a sperimentazioni non ancora adeguatamente testate? Sicuramente la clinica americana ci avrebbe guadagnato. Perché accanirsi fin quando il corpo di Charlie, in un sussulto di vigore, si ribellerà in maniera definitiva consentendo – in questo caso per davvero – alla “natura” di fare il suo corso, cioè di concludere la sua esistenza biologica? Oppure dobbiamo aspettare che la virulenza della malattia abbia devastato a tal punto quella persona, tanto da rendere inutili anche le macchine più sofisticate?

A volte anche il corpo vorrebbe morire, ma non riesce per “colpa” nostra, a causa di una tecnica da noi imposta. Che non ha nulla di naturale. A volte invece mi sembra lecito “assecondare” il cammino inevitabile che conduce alla morte, cercando di alleviare la sofferenza.

Bisogna fare attenzione a non sovrapporre la “vita” all’esistenza biologica. Come cristiani non possiamo adorare la vita in quanto tale. Perché essa è un dono che ci è offerto, ma di cui noi dobbiamo responsabilmente fruire. Rimanere attaccati alla vita in maniera disperata rivela la chiara impronta materialista del nostro tempo. A livello fisiologico e biologico poi la morte è necessaria. Inevitabile per lasciare posto ad altre generazioni.

Giustamente il mondo cattolico si schiera in difesa della vita. Ma non fa abbastanza su un altro versante: quello dell’accettazione del limite e della morte. Anche per i credenti (basta andare ai funerali per capirlo) la morte è divenuta assurda e inspiegabile. Non è più la soglia oscura e misteriosa da cui però può filtrare la luce della risurrezione. Troppe poche volte parliamo di accompagnamento alla “morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare”, come canta san Francesco. Dovremmo pensare di più anche a questo.

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