La tv ha cambiato l’Italia e l’ha anche portata nel mondo

La targa apposta dall’Ambasciata d’Etiopia a Roma il 23 luglio 2023 in Via Abebe Bikila a Roma, nel quartiere Laurentino. Foto wikipedia.org

La televisione in Italia ha festeggiato i settant’anni. All’inizio – il 3 gennaio 1954 – era solo la Rai: un unico canale (“Nazionale”, la grande N che riempiva il monoscopio), poi le altre reti. Quindi sono arrivati tutti gli altri (e con il digitale terrestre il menu televisivo è ormai per ogni gusto), sino alla “smart tv” che trasmette i programmi web direttamente sullo schermo del televisore: ultrapiatto, leggerissimo, spesso appeso alla parete a “far arredamento”, così differente da quelli molto più piccoli, ingombranti e pesanti (per via del tubo catodico), che hanno accompagnato la vita delle famiglie per interi decenni.

La storia della televisione, in ogni paese, accompagna e determina la storia della comunità. In queste settimane, la Rai ci ha offerto le immagini di un’Italia che, allora, cominciava a risollevarsi dopo il buio di una guerra devastante e combattuta dalla parte sbagliata: erano i primi passi, incerti, faticosi. Il boom economico sarebbe arrivato, ma allora in molte famiglie si faceva ancora, letteralmente, la fame e avere un bagno in casa era spesso un lusso. Era l’Italia dove i televisori erano un bene ancora per pochi e dove l’analfabetismo non era solo civile o politico, ma era letteralmente non saper leggere e scrivere. Rivedere il maestro Manzi – ma erano già gli anni Sessanta – che insegnava le vocali scrivendole sulla lavagna, fa persino tenerezza e spiega perfettamente l’invito contenuto nel titolo della trasmissione: “Non è mai troppo tardi”. Peccato che oggi sia proprio la stessa televisione a favorire l’“analfabetismo di ritorno” e a creare nuove, vaste, pericolose sacche di “analfabetismo funzionale” che sono ormai evidenti soprattutto rispetto al mondo digitale.

La televisione dei primi anni non ha cambiato solo l’Italia, nel bene e nel male, portando il mondo in tutte le case, ma ha avuto anche il merito di portare l’Italia nel mondo riuscendo a dare un’idea del Paese forse migliore di quanto effettivamente lo fosse. Le Olimpiadi di Roma del 1960 sono state, in questo senso, un’occasione straordinaria per il rilancio economico e di immagine di un Paese a soli 15 anni dalla fine della guerra. Un Paese, che non godeva di grande simpatia, o per usare il concetto di Degasperi a Parigi (solo pochi anni prima) che poteva contare solo sulla personale cortesia degli interlocutori. Ciò che le celebrazioni per i 70 anni della Rai hanno – sinora – evitato di mettere in evidenza è proprio il ruolo che la televisione ha avuto per dare dell’Italia un’immagine diversa, più accettabile, non più in camicia nera. Un Paese diverso, che tre anni prima aveva ospitato la firma del Trattato che ha dato il via al percorso di unificazione europea; un Paese che stava ricostruendo le case, ma anche le fondamenta di una comunità democratica; un’Italia che lentamente stava smettendo di esportare manodopera nelle miniere del Belgio, in Germania, sino all’altra parte dell’Oceano, persino in Cile dove i trentini cercarono fortuna in un Paese che, forse non a caso, l’emigrazione europea non aveva mai cercato.

In occasione delle Olimpiadi di Roma, la televisione riuscì a dare dell’Italia un’immagine nuova, pulita, giovane. Vincente. Nino Benvenuti nel pugilato e Livio Berruti nei 200 metri, ma anche cinque medaglie d’oro su sei nel ciclismo e il trionfo dei fratelli D’Inzeo nell’equitazione. Un’Italia che aveva saputo rialzarsi e che talvolta – non sempre – cercava di fare i conti anche con il proprio passato.

L’occasione più incredibile fu data proprio dalla gara regina delle Olimpiadi, la maratona, quei 42 chilometri che nell’antica Grecia dividevano Maratona da Atene e che vennero fatti di corsa da Fidippide (490 a.C.) per annunciare la vittoria sui persiani. La maratona di Roma venne organizzata di sera, a rendere ancora più suggestivo l’arrivo posto sui Fori imperiali, proprio sotto l’Arco di Costantino. Quella sera, lo spirito imperialista dell’Italia dovette fare i conti con la vittoria, a piedi scalzi, di Abebe Bikila. Un trionfo “in diretta tv”, una storia che entrò in tutte le case.

Abebe Bikila, un outsider assoluto, correva con la maglia dell’Etiopia. Scelse di correre a piedi nudi perché le scarpe che gli avevano preparato gli erano strette e gli facevano male. Non fu una meteora sportiva, vinse l’oro nella maratona anche quattro anni dopo, alle Oolimpiadi giapponesi. Aveva solo 4 anni quando, nel 1936, Mussolini conquistò l’Etiopia (allora chiamata Abissinia) e più volte ebbe occasione di ricordare ciò che in quell’occasione i fascisti fecero non solo ai soldati etiopi, ma anche alla popolazione civile di quella terra.

Quel sabato sera del 10 settembre 1960, gli italiani (quelli che erano in possesso di un televisore e quelli che lo guardavano ai bar o negli altri locali pubblici) videro una “faccetta nera” dell’Abissinia trionfare sotto i monumenti dell’antica Roma eletti dal fascismo a simbolo del nuovo Impero. Quindici anni dopo la fine della guerra, quella gara che chiudeva i giochi olimpici, sembrava fatta apposta per chiudere definitivamente anche le ambizioni del Ventennio.

In quei primi anni di televisione, l’Italia cambiò per i quiz di Mike Bongiorno, per le lezioni del maestro Manzi, per le previsioni del tempo del colonnello Bernacca, per Carosello (che fece il suo esordio nel febbraio 1957), per Sanremo, per il Musichiere. Ma fu anche per la vittoria di Abebe Bikila, a piedi scalzi e braccia appena alzate, che il mondo, anche grazie alla televisione, aveva cambiato pagina.

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