Le elezioni in Turchia uno spartiacque anche per l’UE

Foto © Caritas Anatolia

La Turchia sta rapidamente avvicinandosi a quello che molti osservatori definiscono un tornante storico. Il 14 maggio si svolgeranno infatti le elezioni parlamentari e presidenziali. In gioco vi è la riconferma di Recep Tayyip Erdogan che da vent’anni governa incontrastato il paese. Dal punto di vista simbolico e politico le elezioni cadono nel centesimo anniversario dalla fondazione di una repubblica laica voluta dal padre della nuova Turchia, Mustafa Kemal Ataturk. Una repubblica che è divenuta con Erdogan sempre più religiosa, estremista e autoritaria allontanandosi con ciò dal modello pensato da Ataturk.

A differenza delle precedenti elezioni nelle quali il “califfo” di Ankara ha vinto a man bassa, questa volta a contendergli il posto di presidente è Kemal Kilicdaroglu che è riuscito nel miracolo di mettere assieme intorno al suo nome sei partiti dell’opposizione. Oggi i sondaggi gli attribuiscono un leggero vantaggio anche se nel suo insieme questa coalizione di partiti appare strutturalmente debole. Oltretutto i problemi da affrontare sia per Erdogan che per Kilicdaroglu sono immensi. Basti pensare al dramma quasi dimenticato dai nostri mass media dei danni arrecati dal devastante terremoto del febbraio scorso, cui è da aggiungere la pessima performance dell’economia del paese che nei momenti peggiori ha raggiunto l’85% di tasso di inflazione interno e portato al tracollo la lira turca.

Risultati economici dovuti in larga parte alla decisione di Erdogan di orientare personalmente la politica fiscale, contro il parere dei tecnici della banca centrale che non condividevano le scelte espansive e imprudenti volute dal presidente. Così oggi l’opposizione si mantiene prevalentemente unita contro Erdogan sia per la palese incapacità del governo nel gestire il dopo-terremoto, sia per la fallimentare conduzione dell’economia. Sul piano della politica estera, invece, il protagonismo e l’ambizione di Erdogan hanno creato situazioni di ambiguità e compromesso difficilmente gestibili da un’opposizione all’interno della quale le posizioni dei partiti si differenziano.

Si pensi al ruolo della Turchia nella guerra Ucraina. Erdogan ha continuato a fornire i micidiali droni Bayraktar a Kyiv permettendo a quel paese di resistere alle prime fasi dell’invasione russa, ma al contempo Ankara si è rifiutata di applicare le sanzioni economiche occidentali a Mosca. Anzi, grazie ai sostanziosi rapporti personali con Vladimir Putin, Erdogan si è proposto come mediatore. In effetti è riuscito a strappare a Russia e Ucraina l’accordo sul passaggio del grano e dei fertilizzanti di entrambi i paesi per il Mar Nero, grazie anche al potere di transito della Turchia sullo stretto dei Dardanelli verso il Mediterraneo. Allo stesso tempo i suoi rapporti all’interno della Nato, di cui il paese è pur sempre parte importante, sono peggiorati con il lungo contrasto all’entrata di Finlandia (poi rientrato) e alla Svezia, da cui Erdogan pretende la riconsegna dei dissidenti al suo regime riparati in quel paese. Ancora pesano poi i cattivi rapporti con Washington (e con la Nato) per l’acquisto nel 2019 di sistemi missilistici russi, gli S-400, cui è seguita la ritorsione americana di non fornire ad Ankara i jet F35 di ultima generazione.

L’opposizione pensa quindi di sanare queste posizioni anomale per un paese membro della Nato, ma non tutti sono d’accordo anche perché nel paese vi è un diffuso sentimento anti-americano e anti-occidentale. Problemi ancora maggiori vi sono riguardo ai rapporti della Turchia con l’UE. Dal 2018 i negoziati di adesione all’Unione sono congelati a causa delle ripetute violazioni dei diritti umani, libertà di stampa e valori democratici decise da Erdogan, soprattutto dopo il fallito colpo di stato contro il suo regime nel 2016. La rottura con l’UE non ha fatto altro che peggiorare la situazione interna e l’opposizione vorrebbe quindi riprendere i rapporti con Bruxelles proprio per sottolineare il ritorno della Turchia alla democrazia. Il guaio è che all’interno dell’UE vi sono paesi come la Francia e l’Austria che non hanno alcuna intenzione di rivedere la Turchia al tavolo dei negoziati.

L’opposizione turca lo sa bene, ma sostiene che vi sono altri sistemi per riavvicinare la Turchia all’UE come ad esempio una vera e propria unione doganale, la liberalizzazione dei visti e una stretta cooperazione sul tema del clima e della difesa e sicurezza comune sia all’interno della Nato che anche bilateralmente con l’UE. Ma è evidente che, se dovesse prevalere Kilicdaroglu, la posizione dell’UE nei confronti della Turchia dovrà cambiare radicalmente allo scopo di agganciare saldamente Ankara alle nostre politiche. A cominciare dal problema dei 3,6 milioni di rifugiati siriani che sono ospitati con soldi europei all’interno della Turchia e rappresentano un’arma di ricatto nelle mani di Erdogan. L’opposizione propone di coordinare la politica dell’immigrazione con l’UE, favorendo il graduale e volontario ritorno dei rifugiati in Siria. Ma perché ciò avvenga è necessario venire a patti con il dittatore di Damasco, Bashar al-Assad, e ritirare i militari turchi mandati da Erdogan nel nord della Siria per controllare i curdi, nemici mortali del regime turco.

Insomma una sfida difficilissima per la quale un ruolo attivo dell’UE è più che mai necessario, anche se non molto probabile. La sfida fra Erdogan e Kilicdaroglu è quindi importantissima. Si giocherà anche sul carattere dei due candidati. Erdogan figura carismatica, al potere da ormai 20 anni e sostenuto dalle forze più conservatrici del Paese. Kilicdaroglu detto il “Gandhi turco”, uomo umile e ex- funzionario di 74 anni. Una sfida che sembra impossibile vincere, ma che comunque vada avrà effetti sia interni che internazionali di vastissima portata; effetti che andrebbero seguiti con grande attenzione da un’Europa oggi troppo distratta.

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