Le parole di Josef nell’ora della prova

Joseph Mayr-Nusser

24 febbraio 1945. Sono passati 75 anni dalla mattina in cui, alla stazione di Erlangen, in un vagone bestiame, il corpo di Josef Mayr-Nusser fu rinvenuto esanime. Il viaggio del treno che lo avrebbe dovuto consegnare agli aguzzini del campo di Dachau era cominciato ai primi del mese a Danzica, dove aveva sede il tribunale che condannò Josef al lager e alla morte. Un altro viaggio per lui era stato quello del convoglio partito da Bolzano il 7 settembre 1944, destinazione Konitz, Prussia Occidentale, campo di addestramento per le SS combattenti, nelle file delle quali il giovane padre di famiglia altoatesino era stato arruolato in spregio del diritto internazionale. Era partito sapendo che forse non ci sarebbe stato ritorno. Era salito nel vagone con le convinzioni maturate in dieci anni, quelli dedicati alla guida dei giovani dell’Azione cattolica, al servizio ai poveri assieme ai fratelli vincenziani, alla famiglia e al lavoro. “Dare testimonianza oggi è la nostra unica arma, la più efficace”. Lo aveva scritto per i suoi ragazzi nel gennaio del 1938, l’anno in cui i dittatori posero le basi, di fronte all’impotenza delle potenze, alla tragedia inaudita della Seconda guerra mondiale e alla negazione della dignità umana. “Non si tratta, dapprincipio, di essere testimoni attraverso la parola, nemmeno attraverso l’azione”, aveva scritto Josef. “Spesso può essere più opportuno tacere; spesso anche la migliore azione può essere distorta. Ma sempre dobbiamo essere testimoni. Esserlo con semplicità e senza pretese”.

Con questi pensieri Mayr-Nusser lasciava Bolzano, traversava l’Europa e approdava nella località prussiana, oggi polacca, dove un vecchio manicomio era stato trasformato in luogo di addestramento per le reclute. Con questi pensieri e con la nostalgia dei volti della moglie Hildegard e del piccolo Albert, che da una settimana aveva compiuto il suo primo anno di vita. “Una preoccupazione affliggerà anche te da quando sai che presto servizio nelle SS”, scrisse venti giorni dopo alla compagna da Konitz.

Dare testimonianza. Ne aveva parlato tante volte con Hildegard. Avevano seguito insieme il caso di Ernst Haller che aveva subito due settimane di carcere per essersi rifiutato di rinnegare la sua fede. “Non ho dubitato un attimo su come mi comporterei in una simile situazione e tu non saresti mia moglie se ti aspettassi qualcosa di diverso da me”. Suona come un rimprovero preventivo, ma è invece il segno che quella di Josef è una scelta condivisa, maturata insieme. “La coscienza di ciò, carissima sposa, questa spontanea concordanza riguardo a quanto abbiamo di più sacro, è per me un’indicibile consolazione”. “Ciò che affligge il mio cuore di più è che la mia testimonianza, nel momento decisivo, possa causare a te, fedelissima compagna, disgrazia temporale. L’impellenza di tale testimonianza è ormai ineluttabile, perché due mondi si stanno scontrando”. La chiusura: “Prega per me, Hildegard, affinché nell’ora della prova io agisca senza timore e senza esitare, lo devo a Dio e alla mia coscienza”.

Il 4 di ottobre, alla vigilia del giuramento di fedeltà a Hitler, Josef capì che il tempo di tacere era finito. Mentre il maresciallo maggiore dava alla truppa le istruzioni per la cerimonia del giorno dopo, il giovane bolzanino chiese la parola, si alzò tra i compagni attoniti e dette la sua testimonianza. Quel giuramento, dichiarò, lui non poteva e non voleva pronunciarlo. Ai compagni che successivamente, prima che fosse arrestato e portato via, gli chiesero perché, rispose più o meno con queste parole: “Se nessuno avrà il coraggio di dire no, le cose non cambieranno mai”.

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