Lo zar Putin gioca nuovamente all’attacco

EPA/XINHUA / Xie Huanchi CHINA OUT / MANDATORY CREDIT EDITORIAL USE ONLY

Un fine d’anno all’insegna dell’ottimismo per Vladimir Putin. Nelle 4 ore della tradizionale conferenza stampa di dicembre (saltata l’anno scorso per le cattive notizie dal fronte) il novello zar russo è apparso rinfrancato, sicuro di sé e saldo al potere. Le elezioni del marzo prossimo non sono certo un problema per lui: vincerà per la quinta volta senza reali alternative.

Rispetto alla scorsa estate, durante la quale faceva intravvedere il possibile uso dell’arma nucleare anche a causa dei rovesci militari in Ucraina, in questa occasione Putin ha utilizzato un tono moderato nei confronti degli Usa e dell’Europa. Ma non verso l’Ucraina, ribadendo gli obiettivi della sua “missione militare speciale” e cioè la denazificazione del paese (che significa un cambio di regime a Kyiv), la sua demilitarizzazione e conseguente neutralità: insomma un paese alla mercè della Russia. Le ragioni di questo cambio d’umore sono presto dette. La controffensiva ucraina si è infranta sulle tre linee di difesa erette nel corso dell’anno dall’esercito russo e per di più Putin può contare su 617mila soldati schierati contro le ben più ridotte truppe di Kyiv che sono stanche e scoraggiate per le grandi difficoltà ad avanzare.

Ma più che la nuova situazione militare sul terreno a tonificare il boss russo sono le spaccature nel campo occidentale.

Da una parte, come è noto, il Senato americano dominato dai repubblicani ha sospeso i futuri aiuti militari, pari a 60 miliardi di dollari, promessi da Joe Biden ad un ansioso Volodymyr Zelensky a corto di munizioni e ricambi. Ma la stessa “pausa di riflessione” su 50 miliardi di euro di aiuti è stata decisa anche dall’UE a causa del veto ricattatorio del solito premier ungherese Viktor Orbàn, che pure aveva digerito a malincuore l’inizio dei negoziati di adesione all’Unione di Kyiv.

Insomma, i segnali di una indebolita solidarietà occidentale ci sono tutti e stanno peggiorando anche alla luce delle difficoltà militari dell’esercito ucraino. Di qui la tempestiva mossa di Vladimir Putin, pronto ad inserire dubbi e promesse nel fronte occidentale.

Lo fa dichiarando che la Russia attende che Washington riconsideri la sua politica nei confronti di Mosca e guardi alle grandi opportunità di un dialogo inclusivo fra le due parti. In fondo, concede lo zar russo, anche gli Stati Uniti sono un “paese importante” e sulle questioni prettamente bilaterali i due paesi parlano in definitivo la stessa lingua, cioè quella delle potenze.

Ecco la chiave delle reali preoccupazioni di Putin: essere considerato a tutti gli effetti una potenza paragonabile agli Usa e non un semplice attore regionale, come aveva osato definire la Russia il presidente americano Barack Obama. Non quindi attore di secondo o terzo livello. Di ciò Putin è sempre stato convinto fin dai tempi, nel 2007, del suo discorso di Monaco di Baviera in cui respingeva il modello di un mondo unipolare sotto l’egida degli Stati Uniti.

Oggi questa pretesa è anche sostenuta dallo sviluppo di un mondo sempre più multipolare con altre potenze come Cina, India, Brasile e, appunto Russia, pronte a mettere in discussione la leadership di Washington. Quindi nella sua conferenza stampa di fine anno Putin ha fatto tutti gli sforzi possibili per presentare la “nuova” Russia, in ciò rinfrancato dai recenti viaggi negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita dove è stato accolto con tutti gli onori che si riservano ad un grande capo di stato, senza alcuna considerazione delle accuse di crimini contro l’umanità pendenti nei suoi confronti davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aia. Ha anzi avuto l’ardire di consigliare ad Israele di cessare gli indiscriminati attacchi a Gaza, come se quelli da lui ordinati contro la popolazione civile in Ucraina fossero una questione di secondaria importanza.

Questa “nuova” Russia consiste, secondo Putin, di tre diverse qualità. La prima è che il paese si presenta come modello per il resto del mondo nella difesa dei “valori tradizionali” della società. La seconda è che la Russia è fondamentalmente un difensore della pace e che per questo motivo chiede la cessazione delle ostilità a Gaza e contemporaneamente la fine degli aiuti militari all’Ucraina per accelerare la fine della guerra. La terza è quella di una Russia vero e riconosciuto “stato sovrano” il cui esempio dovrebbe essere esportato nel mondo.

Tale pretesa si basa a sua volta su quattro pilastri: un’economia autonoma rispetto alla finanza globale; una società protetta da influenze ideologiche esterne; un sistema politico stabile; un grande esercito. Insomma, una descrizione che ricorda molto da vicino le tendenze politiche ed economiche autarchiche dei regimi fascisti e nazisti di epoche passate. Ma anche un messaggio non tanto criptico per i movimenti di destra nell’Europa occidentale e anche negli Stati Uniti nella speranza di una nuova vittoria di Donald Trump.

Questa visione distorta e autarchica del ruolo degli stati ha già trovato emuli nei governi dell’Ungheria e della Slovacchia nonché in tante forze partitiche nazionali. Una minaccia non indifferente per quel poco di multilaterale e solidaristico che ancora resiste in Europa. Un Vladimir Putin che riassume in sé tutto il contrario di quanto abbiamo cercato di costruire nel nostro continente all’indomani della Seconda guerra mondiale. Un Putin ancora più pericoloso di quello che quasi due anni fa ha deciso che l’Ucraina così com’era non rispondeva più agli interessi della Russia.

Una “nuova” Russia che può davvero destabilizzare la nostra Unione europea in un anno, il prossimo, che vedrà le elezioni del Parlamento europeo; elezioni già oggi contraddistinte dalla lotta fra forze moderate e partiti di destra pronti a sposare il modello offerto dallo zar del Cremlino.

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