Disturbo mentale, opinione pubblica tra sfiducia e aperture

Veduta aerea di Bolzano

Il 71 per cento degli altoatesini sarebbe disposto a mantenere un’amicizia con una persona che presenta un disturbo mentale. È quanto emerge da un’indagine condotta nel mese di marzo dall’Istituto provinciale di statistica di Bolzano (Astat). Il campione di riferimento, quasi mille persone, viene interrogato periodicamente per rilevare le opinioni, anche in relazione a temi di attualità. In questo caso l’input è arrivato dal Servizio psichiatrico dell’Azienda sanitaria altoatesina e l’evento di riferimento è il cosiddetto “caso Neumair”, il parenticidio avvenuto
a Bolzano di cui si è parlato a lungo negli ultimi mesi.

Una prima indagine “fai da te” era stata avviata in gennaio dalla stessa Azienda sanitaria, incontrando diverse critiche. Si era detto che fosse stata fatta solo per dimostrare che “la forte eco mediatica del caso Neumair ha stabilito un legame tra disturbi mentali e comportamento criminale”, come si legge ancora sulla pagina di presentazione del questionario. “I mass media – dichiara il primario Andreas Conca – hanno il potere di presentare il comportamento umano – in questo caso un crimine – da diverse angolazioni”. Possono, ad esempio, alimentare lo stigma attraverso informazioni superficiali oppure, grazie a informazioni oggettive, indurre alla riflessione.

L’Astat aveva spiegato che un sondaggio, per avere risultati attendibili, deve basarsi su un campione selezionato con determinati criteri, non su risposte date in modo spontaneo da coloro che sono particolarmente interessati al tema. Come dire: a ognuno il suo mestiere, agli statistici i sondaggi, ai medici le cure, ai giornalisti l’informazione. Tuttavia ora anche alla domanda posta dall’Astat – “come valuta il modo di riportare l’andamento del processo da parte dei media” – tolto un quarto del campione che risponde “non so”, l’opinione prevalente è che i toni siano stati effettivamente sensazionalistici e solo un terzo è convinto che i media abbiano riferito in modo affidabile.

Alla notizia le persone hanno reagito con tristezza (54 per cento), rabbia (25), disgusto (22), sorpresa (14), indifferenza (11) o paura (6). Rispetto alla possibilità di evitare che si verifichino eventi come quello in questione il 47 per cento ritiene che lo siano talvolta o spesso, il 38 per cento raramente o mai. Una maggioranza del campione (52 per cento) è convinta che “si possano individuare dei segnali premonitori di un parenticidio”. La domanda certamente interessante per il Servizio psichiatrico – “ritiene che i pazienti psichiatrici siano persone con maggiore rischio di commettere parenticidio?” – trova metà del campione titubante. Il 51 per cento risponde “non so” e questa è probabilmente, se così si può dire, proprio la risposta esatta. Certamente più corretta del categorico “sì” (33 per cento) e del “no” (16).

La questione è d’interesse perché il timore delle persone di fronte alla malattia psichica, così come ad altre forme di disagio, influenza le relazioni e le dinamiche sociali. Aiuta oppure ostacola la soluzione dei problemi. Allevia o aggrava il disagio delle persone. Così mentre solo un terzo del campione s’immagina di poter vivere con una persona affetta da disturbo mentale, il 71 per cento del campione è disposto a mantenere con essa un’amicizia e un’analoga percentuale (70 per cento) è disposta ad averla come vicino o vicina di casa o non avrebbe difficoltà lavorarci insieme (68 per cento). Nel complesso sembrano percentuali molto alte. Pare proprio che le persone in Alto Adige, malgrado si sia ripetutamente messo in relazione il disagio psichico con il duplice omicidio, siano tutt’altro che frenate nei rapporti umani di fronte a queste situazioni. La domanda di partenza in definitiva rimane aperta. La (apparente) apertura mentale degli altoatesini è tale grazie o piuttosto nonostante “il modo di riportare l’andamento del processo da parte dei media”?

Una simile indagine, svolta sempre dall’Astat nel febbraio dell’anno scorso – quella secondo la quale il credito nelle autorità religiose era sprofondata al 29 per cento – dava la fiducia in noi giornalisti al 36 per cento (abbastanza o molta fiducia), mentre al vertice della classifica stavano medici e scienziati, rispettivamente con un 88 e un 78 per cento. In quanto medici, non in quanto statistici. Ma questa è un’altra storia.

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