Recovery Plan, certezze e insidie

L’intervento del premier Giuseppe Conte al Festival dell’economia 2020, il, 26 settembre, con Tonia Mastrobuoni e Tito Boeri. Foto Daniele Paternoster

Sul Recovery Fund Giuseppe Conte esibisce sicurezza. Lo fa con i terremotati del Centro Italia («Se falliremo, mandateci a casa!») e si ripete al Festival dell’Economia: «state certi!» esclama due volte in merito alla coerenza con le raccomandazioni UE dei progetti italiani che dovrebbero fruire dei 209 miliardi assegnati al nostro Paese. Rispondendo alla giornalista Mastrobuoni e al prof. Tito Boeri, che lo punzecchiano sulla congerie di proposte ministeriali accalcate a Palazzo Chigi (da qualcuno definite «svuota cassetti»), il Premier rivendica la solerzia del Governo. Cita il piano Colao, gli Stati generali e le Linee Guida per la selezione delle centinaia di proposte presentate delle amministrazioni centrali e locali, selezione con cui – dice – «dobbiamo dare una visione di Paese». Ma proprio questa visione, secondo Boeri (e altri) avrebbe dovuto precedere la raccolta generalizzata di proposte, per evitare che tutti chiedano soldi, anche a vanvera, dietro il paravento del «digitale». Insomma, per l’ex presidente dell’INPS il Governo avrebbe dovuto impartire indirizzi precisi ex ante, seguendo l’esempio del Presidente francese Macron.

C’è però da scommettere che il Piano italiano di ripresa e resilienza non scivolerà su aspetti di metodo. Non certo per aver preferito un approccio dal basso, anziché imposizioni dalla cabina di comando, che non hanno mai dato buoni risultati. Lo osserva in un video preregistrato il prof. Francesco Giavazzi, suggerendo di progettare il futuro del Paese ascoltando più il mercato che la tecnocrazia politica. Quanto alla «visione» – parola magica nel lessico politico – per una forte manifattura come la nostra l’unica visione ragionevole è una forte manifattura evoluta ed ecologica. Tutto il resto è l’involucro comunicativo che si mette attorno agli investimenti indispensabili. E non ci vuole molta fantasia per individuarli. Basta pensare al ritardo che l’Italia deve colmare sulla fibra ottica, sulla sanità, sulla mobilità elettrica, sui collegamenti ferroviari, sulla scuola e sulla formazione tecnica. C’è perciò da scommettere che pure sui contenuti il Recovery Plan italiano non deluderà perché, per convinzione o per obbligo, sarà denso di investimenti. Cioè sarà ricco di quello che in qualsiasi ricetta di politica economica, tanto per gli austeri monetaristi quanto per i prodighi neokeynesiani, è l’ingrediente base della crescita.

Molte insidie si addenseranno invece sulla fase di attuazione. Il Premier mette le mani avanti, annunciando una struttura normativa ad hoc, soggetti attuatori mirati e nuove forme di monitoraggio. Inutile sottolineare quanto ostico e pieno di imprevisti sia il percorso di un piano che si regge su un ordinamento speciale per aggirare l’inefficienza di quello attuale, quando gli interventi sono plurimi, diversificati e non solo in forma diretta ma anche di incentivi alle imprese. Il tutto con una serie di riforme a supporto da mettere in cantiere e con trascorsi tutt’altro che brillanti del nostro Paese quanto a utilizzo di fondi europei. C’è poi l’eterna questione del debito pubblico, che aumenterà, fagocitato anche da una massa di oneri permanenti: pensioni, ammortizzatori sociali, assunzione di medici e insegnanti, minori entrate fiscali. Come ridurremo il debito? Bisognerà sperare nella crescita, futura e incerta.

Si tratta di rischi concreti, ma diluiti nel tempo, quindi meno assillanti per il Governo. Ma non per l’Italia. Per il Paese il Recovery Plan sarà una sfida vera.

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