Ricordando il 25 luglio, non c’è pace senza verità

25 luglio 1943. La data è passata alla storia per la crisi apertasi nel Gran Consiglio del Fascismo, per la caduta di Mussolini, il suo arresto e l’incarico conferito a Pietro Badoglio. Sono passati esattamente 80 anni da quel giorno e possiamo chiederci se esso rappresentò una fine, un inizio o niente di tutto questo.

All’improvviso gli italiani si erano scoperti antifascisti, meglio afascisti. Il 2 di agosto il partito fu ufficialmente sciolto. Ma Mussolini non era affatto fuori gioco e il peggio doveva ancora venire. Una situazione particolare si determinò in Alto Adige. Solo due settimane prima le vie di Merano avevano visto una “vibrante manifestazione di omaggio e simpatia all’indirizzo delle Forze Armate”, “germogliata spontaneamente dal cuore del popolo meranese”. Questa la versione del locale giornale fascista. Quanto alla spontaneità del corteo e alla “perfetta comunione” dei meranesi, si deve solo dubitare. Un rapporto di un informatore dell’esercito tedesco, riferito al mese di marzo, afferma che “il sentimento della popolazione rispetto alla guerra è quasi del tutto pessimistico. Ovunque si sente parlare solo della possibilità di una sconfitta…”.

All’indomani della caduta di Mussolini, narra un testimone, l’ultimo segretario del fascio meranese viene preso a schiaffi in piazza da un artigliere alpino perché porta ancora lo stemma del partito sulla giacca. Un altro è sorpreso dagli agenti di PS mentre invita i passanti a togliersi il distintivo del PNF. Viene subito arrestato (“poiché tale sua attività poteva dar luogo ad incidenti”) e poi rimesso in libertà. L’allora capo dei vigili il 26 luglio si sarebbe piazzato davanti al municipio prendendo nota dei nomi degli impiegati che si erano tolti l’emblema del partito. E quando dall’edificio comunale vengono rimossi i fasci littori avrebbe detto con voce stentorea: “I fasci saranno ricollocati al loro posto, e questa volta in oro”.

Secondo la relazione di uno squadrista la caduta di Mussolini invece “non ha provocato molti e profondi rimpianti nella quasi totalità dei fascisti e della popolazione perché era a tutti evidente che qualche cosa di imprecisato non funzionava nella condotta militare e politica della guerra. La maggior parte dei fascisti si affrettò ad abolire il distintivo”.

Formalmente la guerra prosegue a fianco di (sotto a) Hitler. La Germania ha già previsto lo smarcamento italiano e ha un piano di occupazione immediata della penisola. Già da giugno a Merano si diffonde la voce che tre divisioni di SS starebbero acquartierandosi a Bolzano e Verona. A metà agosto giunge a Roma l’informazione secondo cui tra la popolazione “si vocifera insistentemente di una prossima istituzione di un comando militare tedesco che avrebbe la preminenza su quello italiano”.

Il questore conferma le voci con questo scritto: “Il sentimento di irredentismo degli optanti per la Germania si è acuito con il sopraggiungere delle truppe tedesche. Gli allogeni rinunciatari hanno ricevuto i militari germanici come liberatori e non si sono astenuti dall’affermare che l’Alto Adige è stato liberato. Le ragazze alloglotte, che fanno ora maggiore ostentazione dei loro costumi, hanno offerto fiori e frutta ai soldati germanici. Gli italiani qui residenti sono preoccupati della presenza delle truppe tedesche, ritenendo che, in caso di perturbamenti in Italia, le stesse occuperebbero subito l’Alto Adige. Gli allogeni optanti per l’Italia temono siano fatte contro di loro delle vendette…”.

Sono alcuni frammenti risalenti a ottant’anni fa. Bastano per ricordare che mentre la Germania già nell’immediato dopoguerra ha fatto – come doveroso – i conti con l’inspiegabile adesione dei tedeschi alla follia hitleriana, altrettanto non è avvenuto in Italia, se non tra gli storici o in chiave ideologica.

In Alto Adige? Nessuno dei gruppi (sapendo che “gruppo” è solo una semplificazione sociologica) ha fatto davvero una verifica del proprio passato fascista o nazionalsocialista. L’adesione dell’altro al totalitarismo di turno è stata il proprio alibi. Tutti colpevoli, nessun colpevole. E internamente al “gruppo” meglio non aprire ferite (come le opzioni, argomento tabù fino agli anni ’80). Pro bono pacis. Ma la pace è un’altra cosa. Non c’è pace senza verità.

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