Se il virtuale diventa tragicamente reale

Peluche, fiori e bigliettini nel luogo in cui è morto Manuel Proietti, il bambino rimasto coinvolto in un terribile incidente causato da una Lamborghini che ha travolto la Smart guidata dalla mamma, a Casal Palocco, Roma, 15 giugno 2023. Foto ANSA/EMANUELE VALERI

“Dopo l’omicidio stradale di cui è stato vittima mio figlio, ho detto, ho scongiurato una sola cosa: non sprecate la vostra vita, non distruggete per sempre quella altrui, di chi uccidete e di chi resta. Lo ripeterò finché avrò voce”. Anche stavolta, sceglie di parlare attraverso i social Paola Di Caro, giornalista del Corriere della Sera, per trasmettere tutta la sua angoscia. Così come aveva fatto, qualche mese fa, per annunciare la morte del figlio, Francesco Valdiserri, 18 anni, falciato e ucciso, a Roma, da un’automobile guidata da una ragazza di 23 anni il cui tasso alcolemico era tre volte superiore al consentito. Ecco il senso di quelle parole – “non sprecate la vostra vita” – ripetute dopo la tragedia che è costata la vita ad un bambino di 5 anni, vittima di un incidente stradale provocato da una macchina di lusso con a bordo youtuber poco più che ventenni che stavano sfidando sé stessi, la propria resistenza fisica, le regole, il buonsenso e, purtroppo, anche la vita altrui. Non era una bravata estemporanea: era diventata una vera e propria attività, con tanto di sede operativa, addirittura con sponsor importanti (che in queste ore li hanno abbandonati), con utili di decine di migliaia di lire.

Stavano documentando una maratona di 50 ore a bordo di una Lamborghini, tutto trasmesso ovviamente sui canali online. La trasgressione per “far vedere ciò che siamo capaci”, dove tutto diventa spettacolo, dove ogni cosa deve essere esasperata per superarsi, per andare al di là del limite. C’è bisogno di un continuo “di più”, qualcosa di davvero sorprendente, capace di far breccia nell’ipnotico scorrere il rullo di migliaia di immagini sul telefonino, attività che non riguarda solo i più giovani. I social, del resto, hanno imposto il paradigma della documentazione: tutto ha senso solo se tutti possono verificare che l’hai fatto davvero e ogni cosa che facciamo, diventa “vera” solo se siamo in grado di documentarla. Altrimenti non esiste.

Ecco, allora, i selfie che certificano; le foto alle cerimonie per dire “io c’ero” (anche ai funerali: decine di telefonini alzati anche nel Duomo di Milano); le immagini che corrono in tempo reale su WhatsApp per condividere ogni cosa, ma anche per far sapere che stiamo facendo quella cosa o siamo testimoni di un’altra. Alla fine, è sempre l’ego ad ergersi protagonista: i nostri profili diventano lo specchio di Narciso, dove ogni cosa che pubblichiamo diventa l’essenza del bisogno di guardarci riflessi nella fonte che non conosce limiti. Il reale che deve affidarsi al virtuale, con il rischio che ciò che si realizza per il virtuale diventi, infine, reale, tragicamente reale. Come è successo per il povero Manuel che era in macchina con la mamma e una sorellina. Del resto, anche i piloti del Cermis, venticinque anni fa (quando le telecamere erano rare e i social non esistevano) scommettevano barili di birra sulle loro bravate che poi riprendevano. Alla fine, sono stati condannati solo per aver distrutto quel video.

I social hanno dato l’illusione di avere la possibilità di allargare le nostre relazioni, di essere connessi con un mondo più grande di quello che avevamo conosciuto, oppure di poter stabilire collegamenti più solidi anche all’interno della cerchia delle persone che frequentiamo. Senza renderci conto che l’iperconnessione produce invece una “sconnessione” dai legami sociali, anche quelli della quotidianità. Non siamo più soli, diventiamo isolati, dice lo psicoanalista Massimo Recalcati. “La solitudine è un tempo creativo, è un’esperienza da cui può scaturire creatività, riflessione, fantasia. L’isolamento invece è una sorta di deviazione patologica della solitudine. Nella solitudine c’è sempre un rapporto con l’altro, nell’isolamento ciò che viene soppressa, illusoriamente, è proprio la presenza dell’altro”.

La tragedia di Roma è stata provocata da ragazzi che, come tanti, hanno scelto di puntare su contenuti di video estremi. Alzando continuamente l’asticella, si sono fatti un nome. Su YouTube avevano un canale con oltre 600 mila iscritti, su TikTok 260 mila follower, 90 mila su Instagram. Tutto quello che facevano produceva profitto. Avevano deciso di chiamarsi “The Borderline” e tutto ciò che facevano era sopra le righe, tutto era finalizzato a catturare non amici, ma follower, nuovo indice di gradimento che stabilisce quanto ti viene pagato quel video da chi ci mette la pubblicità. Paradossalmente, tutta la notorietà (negativa) ha però regalato nuovi follower e dunque nuovi guadagni. Hanno atteso cinque giorni per chiudere il canale YouTube manifestando dolore per ciò che è successo. Una scelta che appare imposta, obbligata dalle proteste, non certo spontanea. Del resto, dopo l’incidente, avevano continuato a riprendere con il telefonino tutto ciò che stava succedendo sulla scena della tragedia. E a chi protestava per l’insensibilità rispetto al bambino morto, uno dei ragazzi l’aveva rassicurato: “Tranquillo, pagheremo. Daremo un sacco di soldi alla famiglia”.

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