Solo i misericordiosi si trovano bene in paradiso

Esodo 32,7-11.13-14;

1 Timoteo 1,12-17;

Luca 15,1-10

Storie di disonestà, di delinquenza, o fatti di sangue, non ne mancano mai. E c’è una scena ricorrente nei telegiornali: quando la polizia riesce a mettere le mani su qualche delinquente, non di rado deve difenderlo dalla folla, perché altrimenti quel tale rischia il linciaggio. Fa impressione questo. È da capire la reazione rabbiosa della gente, delle persone oneste, ma chi siamo noi per atteggiarci a giudici o per trasformarci in plotone d’esecuzione? Perché questa presunzione di cancellare fatti di sangue con altro sangue? “Ma è sangue di delinquenti!” si dirà. Perché? È di un altro colore il nostro? È proprio sangue di innocenti il nostro?

Erano parecchi giorni che Mosè era salito sul monte a colloquiare con Dio. Doveva ricevere le tavole della Legge: i 10 Comandamenti, cioè il contratto di alleanza che Dio e il suo popolo avevano sancito di comune accordo. Ma nel frattempo che Mosè era su sul monte, quel popolo ebbe l’idea di costruirsi un idolo da adorare, un vitello d’oro: Dio non lo si vedeva mai, almeno quello lo si poteva vedere; del resto era muto (perché era di metallo), e quindi non una parola poteva uscire dalla sua bocca, non un’esortazione, non un rimprovero, e quel popolo era libero di fare tutto ciò che voleva. Ma Dio la prese come un’offesa. Sì, però è padre, onnipotente soprattutto nella misericordia e nel perdono. Mise alla prova Mosè: si presentò a lui adirato, come un offeso deciso a farla pagare cara. “Torna giù – gli disse – perché il tuo popolo che hai fatto uscire dall’Egitto si è pervertito… È un popolo che non capisce niente, lascia che lo distrugga. Quanto a te, io ti farò arrivare comunque alla terra promessa perché tu mi sei mio amico e te lo meriti…”. Ma Mosè non cadde nel tranello: “Come, Signore? Hai sempre detto che quello è il tuo popolo… Adesso che si è pervertito sarebbe il mio? No, Signore: che sia un popolo ingolfato di peccati e difetti, siamo d’accordo, ma tu sei un Dio di misericordia, non di vendetta, pertanto: o perdona a questo tuo popolo, o altrimenti cancella anche me dalla tua lista…”. E a Dio piacque questa reazione di Mosè. Fu chiaro che in fatto di misericordia e di perdono, era diventato simile a lui, e ne fu contento. Mosè aveva conosciuto Dio, e aveva capito che di fronte a lui tutti sono figli, sia i buoni sia gli ingrati, sia gli onesti sia i delinquenti. E se questi ultimi si ritrovano delinquenti non è perché Dio li ha creati tali, ma perché qualcosa all’inizio della loro vita è andato storto, e probabilmente nemmeno per colpa loro. Allora Dio – che vede tutto e bene – ha un occhio di predilezione per costoro: come un padre e una madre che, se hanno un figlio un po’ discolo, se ne preoccupano e gli dedicano più attenzione che non agli altri, col rischio di sentirsi accusare di parzialità e di essere ingiusti.

Ha dovuto giustificarsi anche Gesù di fronte a tale accusa: scribi e farisei lo incolpavano di annunciare un Dio che fa parzialità, che ama e cerca con passione e predilezione i perduti, gli irrecuperabili. Sì, in effetti Dio ha una passione folle, sconsiderata per costoro. Potremo mai capirlo noi, suoi figli? Cos’ha quella pecora perduta (della quale ci parla la parabola evangelica) di diverso dalle altre? Dov’è il buon senso di un pastore che lascia le altre 99 nel deserto per andare a cercare quella? “Pensa a quelle 99 piuttosto”, direbbe il buon senso, “metti in salvo quelle prima di tutto!”. Forse il Signore, con questo comportamento, vuole insinuare che nessuno può ritenersi al sicuro fino a che anche uno solo risulta perduto. Che i delinquenti vengano presi e assicurati alla giustizia è già molto per la società, ma a Dio non basta. Dio li vuole incontrare, abbracciare, ricuperare. Solo allora è contento Dio: “Rallegratevi con me, ho trovato la mia pecora che era perduta”. È contento di una contentezza che vorrebbe condividere con tutti suoi figli. : “Ci sarà gioia in cielo per un peccatore convertito, più che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Non ne hanno bisogno o presumono di non averne bisogno? Scribi e farisei, che si atteggiano a giudici, non possono condividere la gioia di Dio. E a tale riguardo mi chiedo: sono scomparsi o ci sono ancora gli scribi e i farisei? Come ragioniamo noi di fronte a chi va fuori strada, si mette ai margini, o ne combina delle grosse? Il primo istinto porterà a dire: “Fermatelo! Che non ne combini di più grosse ancora”. Ed è saggio ragionare così. Ma se siamo davvero figli di colui che chiamiamo “Padre nostro” dobbiamo condividere la sua passione, la sua ansia, per chi ha avuto la disgrazia di perdersi, di rovinarsi. A noi deve stare a cuore il recupero, il ravvedimento di chi sbaglia, non che finisca sulla forca o sulla sedia elettrica. Che se poi può sembrare rischioso dare fiducia a chi ha sbagliato, credere nel suo recupero nonostante tutto, ricordiamoci che il rischio più grosso lo corre il Padre nostro: lui non smette mai di credere e di sperare nelle persone, anche in quelle che secondo noi non lo meritano. Lui le cerca e fa festa quando le può raggiungere, perché è la misericordia che lo muove. L’ho già detto altre volte, ma non mi stancherò di ripeterlo: solo chi guarda con misericordia, vede bene. Chi non la conosce, vede male, e giudica male. Ma soprattutto non può provare la gioia: quindi, cosa ci andrà a fare in Paradiso? Infatti “là ci sarà gioia per un solo peccatore che si converte, più che per tanti giusti che non hanno bisogno (o si illudono di non aver bisogno) di conversione”.

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