Sui social tutti giornalisti, ma senza etica e senza deontologia

Fermo in coda nel traffico del primo mattino, con un gesto forse dovuto ad un riflesso nervoso (che ci fa fare le cose automaticamente, senza pensarci), l’automobilista, prima spazientito e poi sbalordito, ha preso il telefono e ha cominciato a riprendere. Del resto, la scena era certamente curiosa, insolita: una donna tutta nuda se ne stava lì, camminava tra le automobili incurante della temperatura prossima allo zero (era pur sempre il 22 gennaio). Nel video si vedono le macchine bloccate lungo la salita che porta allo svincolo per via Degasperi, in piena città, a Trento. Si vede l’ambulanza ferma, che blocca il traffico, ed è riconoscibile anche il professionista di Trentino Emergenza che cerca di fermare la donna che, invece, continua ad allontanarsi: attraversa prima la strada, prosegue sul marciapiede e poi torna a camminare tra le macchine. Sino ad uscire dal campo dell’obiettivo di ripresa che, a quel punto, viene spento.

Il video dura poco meno di 30 secondi ed è il classico esempio di come oggi siano gli stessi cittadini a trasformarsi da testimoni a cronisti: non solo sono in grado di fare il video, ma in pochi istanti possono condividerlo e diffonderlo. Cosa che l’automobilista ha immediatamente fatto usando lo strumento di messaggistica che può raggiungere praticamente tutti. Ciò che una volta era un’opportunità riservata solo ai giornalisti (fare una ripresa video e metterla in onda), oggi è possibile a chiunque. Non è più necessaria la “mediazione” di chi acquisisce le informazioni, le elabora e diffonde le notizie. Oggi “tutti siamo giornalisti”, tutti siamo in grado di raccontare ciò che succede, anche quello che “i telegiornali non dicono”, come si legge sempre più spesso sui social; anche quello che i “giornalai” (termine dispregiativo che non si trova solo sui social) raccontano mediando, magari rispettando pure quei principi deontologici che qualcuno, nell’epoca della comunicazione globale, ritiene inutili orpelli che condizionano la libertà di informare e di essere informati.

L’effetto “inoltro” ha portato ovunque il video della povera donna: prima su decine di telefonini, poi centinaia, poi migliaia. Si chiamano “video virali” perché, come un virus, si diffondono senza che nessuno possa fermarli. Tantissime persone se lo sono trovato sul telefonino e tante lo hanno mandato ad amici e conoscenti. Un effetto moltiplicatore che ha ovviamente superato i confini provinciali per arrivare praticamente ovunque. Se ne trova traccia su diversi giornali del Veneto e della Lombardia. Morbosità e superficialità, spacciate per curiosità, hanno sempre facile gioco sulla responsabilità.

Una volta, nelle redazioni, a fronte di certe notizie – se darle, sul come darle – scattava una domanda: “e se fosse un tuo familiare?”. Il rispetto per le persone fragili diventava (e diventa tuttora) un elemento dirimente nella valutazione della notizia. Si cercava (e si cerca) un uso appropriato delle parole, le immagini venivano (e vengono) valutate non solo per ciò che rappresentano, ma anche per le conseguenze che possono avere quando possono essere viste da tutti. La stessa scelta dello spazio in pagina, o la collocazione nel sommario di un telegiornale, non erano (e non sono) casuali.

Il video diffuso via WhatsApp sfugge invece a qualsiasi riflessione, a qualsiasi senso di rispetto delle persone e, nel caso specifico, a qualsiasi tutela per una donna in evidente stato di difficoltà personale.

Da Gaza all’Ucraina, anche i video degli orrori della guerra ci arrivano direttamente sui telefonini, portandoci progressivamente verso la soglia dell’assuefazione e al rischio dell’indifferenza. Si tratta di messaggi che senza una spiegazione, senza che ci sia qualcuno che decodifica ciò che vediamo, senza avere la dimensione della complessità, rischiano di essere funzionali a quella “banalità del male” aggiornata ai giorni della comunicazione globale.

La logica della propaganda, che pervade i social, non conosce limiti perché la disinformazione non conosce ostacoli nella sua diffusione. Una volta c’erano le bufale (notizie talmente inverosimili da suscitare qualche dubbio), oggi sono fake news prodotte e diffuse secondo una strategia che ha come obiettivo quello di condizionare l’opinione pubblica.

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