Un modello federale come vaccino politico?

La sede del Parlamento europeo a Bruxelles

Con il Covid-19 sono andati in scena incredibili tira e molla fra lo Stato e le regioni, e altrettanti bisticci con l‘Europa. Ciò ha rinfocolato in molti cittadini la voglia di unità nazionale, con relativi fastidi antiregionali e antieuropei. Giusta la prima, antistorici i secondi.

Infatti, nonostante sprechi e malefatte, un assetto istituzionale a competenze condivise è in qualche misura indispensabile, per la doppia crisi dello Stato, la cui sovranità è risucchiata verso l’alto dall’esigenza di una dimensione continentale ed erosa verso il basso dalle aspirazioni autonomistiche locali.

Più livelli di governo sono dunque destinati a convivere, basandosi sulla separazione dei ruoli («queste cose le curo io, queste altre tu») o sulla loro integrazione («queste altre ancora le curiamo insieme»).

Nel primo caso si hanno competenze esclusive, nel secondo concorrenti. Queste ultime sono previste sia dalla Costituzione sia dai trattati europei, proprio in campi quali la «tutela della salute» (art.117 Cost.) o i «problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica» (art. 2 Trattato sul funzionamento dell’UE). È una combinazione a incastro: per alcune materie, lo Stato determina i principi fondamentali entro i quali legiferano le regioni; nell’UE gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non abbia esercitato la propria.

Dunque l’intreccio di atti normativi è una precisa scelta, pur fonte di contrasti e di superlavoro per la Corte Costituzionale.

Forse non si è fatto buon uso di un buon modello, anche se per molti non è così, ritenendo che le funzioni condivise provochino di per sé confusione e vadano abolite. Era uno dei punti forti della fallita riforma costituzionale Renzi–Boschi del 2016: lo Stato sarebbe rimasto il legislatore unico per un preciso elenco di materie d’interesse nazionale, e per tutto il resto sarebbero state le regioni a legiferare in via esclusiva. Il «no» degli italiani ha blindato la legislazione concorrente, non certo la sua deriva conflittuale, di cui nella pandemia abbiamo avuto abbondanti assaggi. Ma ciò è avvenuto soprattutto in fase iniziale, perché poi la reazione all’emergenza, a Roma come a Bruxelles, ha trovato la propria strada. E al di là dei giudizi di merito, è stata una reazione poderosa.

In tutto ciò potremmo rinvenire la versatilità tipica del modello concorrente, cesellato con cura dai trattati europei attorno ai tre basilari principi di attribuzione (l’Unione agisce soltanto entro i limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati), di sussidiarietà (se non competente in via esclusiva, l’Unione interviene soltanto se e in quanto non possano farlo con sufficiente efficacia gli Stati) e di proporzionalità (l’Unione si limita a quanto necessario agli obiettivi dei trattati): principi che fanno capire come autonomia e unità siano pensate per convivere, con pazienza per le prove maldestre di questi due poli irrinunciabili della democrazia moderna.

Del resto la concorrenza di poteri centrali e autonomie sta forse vivendo una sua fase di maturazione, in vista di una più forte integrazione: una sorta di fidanzamento, preludio di un legame più stretto e stabile.

Nella metafora il matrimonio è il modello federale: un vero governo europeo sovranazionale a Bruxelles e un nuovo protagonismo delle autonomie territoriali.

C’è da riflettere se non sia proprio questo il vaccino politico contro il virus: più Regioni e più Europa, nonostante le caotiche incertezze

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