Un’arca che non salva

Non è nelle sale trentine, ma è necessario dire due parole su questo affascinante affresco a metà tra il fantastico e il fantascientifico di Bong Joon-ho, il regista coreano alla sua prima produzione europea. Ispirato alla graphic novel francese di Benjamin Legrand e Jaques Lob, Snowpiercer è uno straordinario, affascinante film, di ampio respiro poetico.

La storia è una sorta di racconto biblico del terzo millennio, siamo nel 2031 (tra pochissimo insomma) e lo scenario è quello apocalittico di una devastante glaciazione, causata da una sostanza che avrebbe dovuto guarire il surriscaldamento del pianeta e invece ha pressoché estinto il genere umano. Gli unici a salvarsi sono coloro che sono riusciti a salire sullo Snowpiercer, un treno dal moto perpetuo, che si autoalimenta girando intorno al globo, ideato e creato da un novello tiranno, faraone e dittatore, tale Wilford, interpretato da Ed Harris, che vive nella locomotiva di comando.

Sul treno, come in un’immaginaria Arca di Noè, è rinchiuso il genere umano diviso rigidamente in classi sociali. E come dice una trasfigurata Tilda Swinton, portavoce di Wilford, ”tutti sul treno hanno un posto, chi fa parte della coda, deve rimanere in coda, chi fa parte della testa rimane in testa; se la coda prende il posto della testa c’è il caos e ne va della salvezza del treno”. E’ un discorso realisticamente crudele e di ferrea retorica politica.

Ma nel treno prende corpo una ribellione: i passeggeri in coda, schiavizzati e brutalizzati decidono di ribellarsi e capeggiati dal coraggioso Curtis (Chris Evans), cercano di arrivare alla locomotiva di Wilford.

E’ chiaro a questo punto che il film è da leggersi come una metafora dell’esistenza umana, ricca di riferimenti filosofici, religiosi e storici, e non a caso tutto quello che succede sul treno è una summa della storia umana: sul treno si ripete eternamente immutabile la storia dell’umanità dalle lotte di classe alle ribellioni sociali, dalle tirannidi alle guerre.

E Wilford al potere è la metafora del potere, indifferentemente crudele e magnanimo allo stesso tempo; il potere che si nutre di potere, straordinariamente raggelante.

Il regista con un grande atto di sfida, negli spazi angusti della locomotiva gira scene mozzafiato di battaglie, unendo un’estrema crudeltà a una raffinata e rarefatta poesia, molto coreana.

I ribelli vogliono arrivare alla testa, e ci riescono, ma la loro ribellione si rivelerà inutile perché in realtà alla fine non ci sarà nessun vero cambiamento: nel senso che, con una nuova guida, si ricreerà una testa e una coda ma sempre sullo stesso piano, sempre ciclicamente e eternamente immutabile. La vera salvezza starebbe nel rompere l’equilibrio e uscire dal sistema sempiterno e ciclico: far deflagrare il treno, azzerare tutto e ricominciare dall’inizio.

Ecco perché il film appare anche come una profonda riflessione sulla natura umana; una rappresentazione quasi dantesca del genere umano. Ma se in Dante c’è una ascesi, una redenzione, nel treno di Bong Joon-ho non c’è speranza tutto è ciclico e eternamente uguale: l’unica salvezza è uscire.

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