La crisi economica spaventa più della guerra

Bucha, Ukraine

È la situazione economica a preoccupare più di tutto gli italiani. Lo certifica il sondaggio annuale dell’Ispi di Milano che con l’ausilio di Ipsos ha redatto il rapporto su “gli italiani e la politica internazionale”. Di fronte ad un’inflazione crescente, a due cifre come non avveniva da decenni, e all’impoverimento generale della popolazione a cominciare dai ceti medi, il risultato del sondaggio non è certamente sorprendente.

Questa nuova crisi economica, che segue a ruota quella indotta dallo scoppio della pandemia e in tempi più recenti dalla crescita del costo dell’energia (prima del conflitto russo-ucraino), ha affossato le speranze degli italiani di uscirne bene come era sembrato con il rimbalzo economico del primo semestre dell’anno scorso (governo Draghi).
Ciò che forse può stupire è che la guerra della Russia contro l’Ucraina sia solamente al quarto posto nella lista delle minacce, preceduta di qualche punto percentuale dai temi del cambiamento climatico e dell’immigrazione (vecchio argomento presente da anni).

In realtà a scorrere le tabelle del sondaggio si comprende che, seppure non visto come una minaccia incombente sugli italiani, il conflitto armato in Ucraina determina altre percezioni della nostra opinione pubblica. La prima è che la Russia si colloca al primo posto nella classifica dei “nemici”, fatto che non si verificava da anni, allorquando invece i rapporti con Mosca venivano considerati utili per il nostro paese. Putin, in altre parole, non è più un partner affidabile e condivide questa negativa posizione con la Cina ormai vista come fonte della pandemia e della scarsa trasparenza delle sue politiche sanitarie e perfino commerciali.

La seconda percezione di preoccupazione, legata al conflitto in atto, è la mancanza di fiducia su una possibile soluzione pacifica fra Kyiv e il Cremlino. Solo il 31% degli intervistati spera che gli eventi sul fronte militare portino alla pace. Una buona percentuale crede invece in un colpo di stato a Mosca o addirittura ad una resa finale dell’Ucraina.
Questa incertezza sull’esito della guerra porta anche ad altre conseguenze.

La prima è che si rafforza la fiducia nelle istituzioni e nei paesi schierati contro l’invasione russa: la Nato in cima alla lista, seguita dall’UE e dagli Usa. La seconda è che l’83% degli intervistati è del parere di aumentare l’impegno militare e di difesa dell’Italia.

La maggioranza non è tuttavia d’accordo di rinforzare l’esercito nazionale (solo il 21%), mentre i più propendono per un maggiore contributo alla Nato (28%) e alla Difesa europea (34%). Sembrerebbero quindi maturi i tempi per contribuire, come Italia, al lancio del mai decollato progetto UE di difesa comune. Ma ben sappiamo che non è così. Se infatti la crisi ucraina e la minaccia russa non sono riuscite a muovere concretamente le acque europee nella direzione di una vera difesa comune, non si comprende davvero che cos’altro ci sia da aspettare per avviare quel processo di unificazione militare che affonda le sue radici nel lontano 1952 con il lancio del piano sulla Comunità di difesa europea (Ced). Piano naufragato per mano francese, dopo che quello stesso governo ne era stato addirittura il promotore.

Oggi invece assistiamo ad una corsa al riarmo delle singole nazioni, con in testa la Polonia che oltre ad aiutare massicciamente Kyiv dedica oltre il 5% del Pil (l’Italia è all’1,6%) alle proprie forze armate. La Germania dal canto suo ha deciso di portare al 2% del Pil le spese di difesa ordinarie e in aggiunta ha staccato un assegno di 100 miliardi di euro per la Bundeswehr, ma nel frattempo traccheggia nel concedere all’Ucraina l’uso dei suoi carrarmati Leopard 2. Insomma, la solita cacofonia europea che fa sicuramente un grande piacere a Vladimir Putin. Appare quindi come miracolosa la propensione dell’opinione pubblica intervistata da Ipsos di insistere sul progetto di difesa europea.

Ma è soprattutto sul volet (aspetto) economico, tema di preoccupazione per tutta l’Europa, che il nostro governo e l’intera UE devono dare una risposta convincente e immediata. Le prossime settimane e mesi saranno decisivi per affrontare il tema di un rilancio economico europeo richiesto da tutti i paesi, a cominciare da quelli più ricchi, come Germania e Francia, che sentono forte il vento della crisi economica. Oggi, per di più, alle difficoltà economiche interne dell’UE si aggiunge anche la concorrenza del governo americano che ha deciso di devolvere ben 460 miliardi di dollari alla competitività delle proprie industrie di punta. L’UE non deve quindi permettere che questa distorsione, dovuta ad investimenti di stato americani, si rifletta negativamente sul proprio futuro economico.

La risposta non può tuttavia essere di allentare il controllo (severo) sugli aiuti di stato dei singoli paesi europei, ma di creare invece un grande fondo comune che possa intervenire a favore di progetti europei in campo industriale. La proposta della Commissione si muove in effetti in questa direzione al fine di evitare il rischio di squilibri fra gli aiuti di paesi ricchi e non indebitati e paesi poveri dell’UE. Una proposta simile al “Next Generation EU”, il grande fondo di ripresa economica. Con ciò si riuscirebbe a mantenere in vita il mercato unico europeo e allo stesso tempo si risponderebbe alla sfida americana (e cinese). C’è quindi da sperare che la grande crisi economica, correttamente percepita come prioritaria anche dalla nostra opinione pubblica, si trasformi in una nuova opportunità di crescita dell’UE.

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