La parrocchia non è uno sportello

Ci sentiamo davvero comunità? Su che cosa si basa quel sentimento di appartenenza che dovrebbe unire i credenti?

Vorrei continuare la riflessione sul futuro delle nostre parrocchie, perché ritengo che siamo solo all’inizio di un cambiamento di cui ancora stentiamo a renderci conto. La carenza di preti si manifesterà in tutta la sua portata solo tra qualche anno (non molti in verità), e la dimensione relazionale delle nostre realtà parrocchiali sembra molto fragile, legata ad eventi, realtà o personalità eccezionali, che prendono slancio ma poi si perdono in fretta. La vita cristiana, anche nei suoi aspetti meno impegnativi e più formali, non coincide più con le abitudini socialmente condivise. Nonostante una mentalità individualista che sembra farsi sempre più spazio anche tra i credenti, la via imprescindibile per noi cristiani sia quella dell’incontro, sia con il fratello vicino, sia con Cristo.

Lorenzo

Quasi sempre utilizziamo il termine “parrocchia” e “comunità cristiana” come se fossero sinonimi. In realtà, forse implicitamente, forse senza accorgercene, diamo una valenza molto diversa alle due parole. La parrocchia certo è l’ambito dell’incontro domenicale con la Messa, è il luogo in cui troviamo (trovavamo) la chiesa, l’oratorio, la canonica. In essa si svolge la vita cristiana. La parrocchia però rimanda anche all’abitudine di una religiosità tradizionale, a uno sportello burocratico da cui bisogna passare per accedere ai sacramenti, spesso vissuti come un’incombenza. Non dimentichiamo poi i problemi economici. Ecco infine spuntare quella persona che proprio non sopportiamo, ma con cui dobbiamo condividere qualche attività.

All’opposto, la comunità. Questa è una parola “calda”, pregnante, familiare. Condensa una nostalgia di incontri significativi, un desiderio di pienezza. Evoca ricordi felici, atmosfere indimenticabili. La comunità è il luogo accogliente in cui il singolo è valorizzato ma non si perde nella massa, in cui può trovare aiuto e comprensione. Ovviamente poi la comunità – non certo la parrocchia – è il termine utilizzato negli scritti neotestamentari che, a loro volta, rimandano alla fede di Israele, al popolo radunato al cospetto di Dio. Il modello di comunità trova le sue caratteristiche fondamentali nei documenti del Concilio vaticano II: possiamo dire che la Chiesa stessa si auto concepisce come “comunità” convocata (ek-klesia) dal Signore. La “parrocchia” è un concetto giuridico-ecclesiastico, la “comunità” è invece un concetto ecclesiologico.

Tra questi due estremi si colloca la nostra realtà quotidiana, piena di luci e di contraddizioni. Non servono disquisizioni filosofiche e analisi sociologiche per rendersi conto di quanto la comunità sia in crisi ad ogni livello, dalla politica alla religione. Le relazioni sono fragili e soprattutto fatichiamo a pensarci come un “noi”. Eppure non è vero che siamo tutti frammentati in un individualismo esasperato. Nuove comunità nascono, magari attraverso consuetudini o valori che ricalcano in maniera impressionante, benché secolarizzata, una dimensione spiccatamente religiosa. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Basti pensare alla tifoseria calcistica in cui la fede e il rito sono evidentissimi. Oppure il diffondersi della cultura “vegana” (quelli che non mangiano animali e prodotti proveniente dagli animali): sappiamo quanto le abitudini alimentari siano un aspetto fondamentale per ogni religione. E i vegani non seguono la loro particolare dieta soltanto per la moda del salutismo, ma proprio per ragioni etiche, per valori quasi “spirituali”.

Come diceva Bauman, non manca la “voglia di comunità”. Ma come dicevi tu, la dimensione relazionale è molto indebolita. Inoltre la scansione della nostra vita non è più cadenzata dal susseguirsi delle feste religiose; un tempo il calendario agricolo si sovrapponeva a quello liturgico in una compenetrazione reale e simbolica allo stesso tempo. Oggi regoliamo i nostri orologi con il segnale orario della radio o della tv, non certo sul rintocco di campane che non sentiamo (e che forse non suonano) più. La trasformazione dunque è evidentissima e non riguarda solo la penuria di preti. Tutto viene messo in discussione. E molto dovrebbe cambiare.

Però ci sentiamo davvero comunità? Su che cosa si basa quel sentimento di appartenenza che dovrebbe unire i credenti? Naturalmente la fede comune. Ma in questo ambito siamo dispersi, dubbiosi sui fondamenti, distanti sulle verità effettivamente professate. Non si è più cristiani per convenzione ma solo per convinzione: per questo dovrebbero contare anche lo studio e la cultura, veri argomenti tabù nelle nostre parrocchie. La fede va incarnata nelle opere, nella prassi (che non è morale, ma stile di vita). Anche in questo caso i problemi si moltiplicano: papa Francesco chiama a una Chiesa in uscita, che accoglie il povero, che vive in periferia, ai margini. Molti non approvano questa impostazione, come nel caso dell’accoglienza dei migranti (ma anche degli emarginati “di casa nostra”).

Ricordiamo i bellissimi termini che la tradizione utilizza per descrivere la comunità cristiana che deve essere caratterizzata da evangelizzazione missionaria (martyria), comunione (koinonia), assemblea liturgica con celebrazione dei sacramenti (liturgia), servizio fraterno (diaconia). Nelle nostre parrocchie troviamo tutto questo? Forse no, ma questi sono i cardini su cui appoggiarsi.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina