Romero santo. Cosa ci lascia in eredità?

Fu assassinato sull'altare dagli squadroni della morte il 24 marzo 1980 il vescovo di San Salvador, di cui Papa Francesco pochi giorni fa ha annunciato la canonizzazione. Ma cosa resta dell'eredità di mons. Oscar Arnulfo Romero a quasi trent’anni dalla sua cruenta scomparsa? Più di quanto la realtà centroamericana evidenzi in questi ultimi anni.

Va osservato il fatto che un’intera generazione ne ha sentito soltanto parlare e spesso occasionalmente; i giovani salvadoregni che ne sanno di un vescovo che si era battuto per la causa degli impoveriti e su questo aveva impostato un modo diverso, per tanti aspetti “rivoluzionario”, di vivere il messaggio evangelico nella realtà concreta latinoamericana? In questi anni un uragano impetuoso ha sconvolto tutte le regioni dell’istmo con una “modernizzazione” introdotta attraverso i consumi indotti dagli Stati Uniti, accostata ad un processo di secolarizzazione che appare anche in quelle propaggini “periferiche” oramai irreversibile.

La tanto proclamata globalizzazione ha invaso ed ha inciso anche nelle estreme periferie dell’impero. Il mondo contadino, quello dei campesinos, è profondamente mutato con il successo dell’agroindustria che ha trasformato i contadini in braccianti, salariati agricoli che vanno perdendo memoria della loro cultura atavica. Ad esempio, il concetto di pachamama, la madre terra, resiste ancora in qualche comunità indigena, ma è stato spazzato via nelle residenze del bracciantato salariato. E' una mutazione dunque di tipo anche antropologico, che cambia il “modello umano” tramandato da secoli.

Anche l’influenza della Chiesa appare, e non da oggi, da qualche decennio, decisamente in fase calante. Tutto si trasforma con ritmi impensabili, l’emigrazione giovanile sposta i baricentri di attenzione e di probabile “sviluppo” creando alienazioni e nuove povertà. Lo conferma il crescere abnorme e del tutto incontrollato delle periferie urbane, invivibili e al contempo ricettacolo di microcriminalità e polverizzazione delle coscienze singole nel bailamme di “comunità” che sono più gang di malaffare che centri di aggregazione e coinvolgimento, di “comunità” in cui riconoscersi in un “comune” destino!. 

E le questioni di fondo – ingiustizie abissali, distribuzione iniqua dei redditi, mancato rispetto dei diritti umani fondamentali – rimangono tutte irrisolte. Anzi, se possibile, si presentano aggravate, cronicizzate. In questo senso le recenti democrazie popolari si sono consolidate in paesi come Bolivia, Ecuador, Venezuela e altri ma non hanno minimamente toccato il Centramerica dove non a caso si è ripetuto il termine del tutto proprio di democradure (una crasi tra democrazia e dittatura). Facile che poi si presentino fenomeni allarmanti – in Salvador, Guatemala, Nicaragua, Honduras, persino Costarica e Belize- come il dominio delle gang giovanili in estesi territori urbani e delle squadre paramilitari nei contesti rurali dominati dalle nuove fameliche multinazionali.

Per i cristiani, in un contesto di crescente secolarizzazione che coinvolge anche l’America Latina, serve riandare ad una rilettura del Gesù di Nazareth storico e scrostare tutto il messaggio evangelico dalle sovrastrutture “culturali” imposte, riportandolo alla alla sua essenza più emerge.

E' quanto emerge dall'impegno di non poche comunità autenticamente missionarie e dai testi di un grande teologo basco, Josè Antonio Pagola che di fronte alla stanchezza della Chiesa s'interroga su come tramandarne il messaggio in “otri nuovi”, senza nostalgia alcuna per regimi di cristianità. Ma era quello che si chiedeva anche mons. Oscar Arnulfo Romero nelle sue omelie. O la Chiesa è per l’uomo oppresso e sofferente e si pone umilmente al suo fianco o non è la Chiesa di Cristo. E Romero, già allora antesignano e pragmatico, profondamente “spirituale” e fedele, la sua scelta l’aveva compiuto, pagandola con il sacrificio della sua vita.

Così come gli altri martiri per il Vangelo dei poveri, come i cappuccini trentini ricordati venerdì scorso a Trento (vedi pag. 15) e uccisi nella Domenica delle Palme in un angolo lontano dell'Etiopia.

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