Cesare Maestri, il “ragno” dal cuore anarchico

Cesare Maestri. Foto © Gianni Zotta

Madonna di Campiglio, 13 settembre – Barba e capelli come una coltre bianca. Una spruzzata di neve settembrina sul volto che sa di roccia. Con gli occhi scavati dentro. Forse è vero che alla lunga anche la tua faccia racconta di te. Dettagli che all’inquieto Cesare Maestri interessano peraltro ben poco: «Vecio son. E la vecchiaia è una grande fregatura». A pochi giorni dalla consegna del premio solidarietà alpina, il “ragno delle Dolomiti” rinuncia alla quasi quotidiana sgambata sui sentieri dello Spinale («anche adesso solo la fatica mi fa star bene») per accogliere nel salotto di casa, in centro a Campiglio, i microfoni di Trentino inBlu: «Fammi dire che voglio abbracciare tutti. Il premio, che va a tutte le guide non solo a me, mi ha commosso profondamente. Sarà che nessuno è profeta in patria o che arrivati al traguardo della corsa si perdono certe difese: ogni cosa ti commuove o ti ferisce di più».

Nella motivazione del riconoscimento c’è quel salvataggio di Luciano Eccher in Brenta nel settembre 1954, raccontato anche da Dino Buzzati sul Corriere.

Avevo un debito di gratitudine verso di lui che mi aveva sfamato tante volte durante la guerra. Vivevamo vicini, ai “casoni” di Trento. L’unico modo per dargli qualcosa era offrire la mia capacità e la mia conoscenza della montagna.

Su quella seconda ripetizione della Franceschini-Stenico al Campanil Basso cosa successe?

Luciano voleva recuperare una staffa. Gli dissi di lasciar perdere, ma non mi diede retta. Gli partì il chiodo sul quale appoggiava e passò giù. In un primo momento mi spinse piedi in aria e testa in giù sulla roccia. Poi provò a tirarsi su a braccia ma senza esito. Gli dissi: “Luciano non ce la faccio più!”. E lui: “taglia la corda che almeno ti salvi tu”. Un gesto grandissimo.

Ma lei quella corda non l’ha tagliata…

Anche perché allora le corde costavano tantissimo! A parte gli scherzi, sarebbe stato per me un delitto. Lo lasciai appeso al chiodo nel vuoto girando su se stesso. Nevicava e faceva notte. Feci gli ultimi duecento metri di scalata di quinto, sesto grado fino in cima. Appena iniziata la discesa sull’altro versante incontrai mio fratello che stava salendo impensierito. Gli ha detto: “Luciano è volato, vai da Bruno Detassis e mandami il soccorso”. Mi sono messo sulla cengia e come mi capita sempre nei momenti dell’aut-aut, mi è venuto sonno: sarà una forma di difesa. Verso le due di notte è arrivata la pattuglia dei soccorsi e siamo scesi a recuperare Luciano, malconcio ma vivo. Sussurrò: “Sai Cesare, quando ho visto che partivi mi sono detto: mi salva”. Bruno mi rese l’onore di guidare la cordata di rientro».

Cesare Maestri a Madonna di Campiglio

Altri episodi di soccorso scolpiti nella memoria?

Ero appena diventato guida alpina, facevo l’istruttore militare al Passo Sella. Sulle Cinque Dita si era sfracellato un ragazzo. Me l’hanno caricato sulle spalle e lui continuava a stringermi e baciarmi sul collo per ringraziarmi. A un certo punto non l’ha più fatto. Mi sono accorto che era morto. Aveva sedici anni.

Il “grazie” più bello ricevuto?

Ho salvato un centinaio di persone, ma solo una mi ha ringraziato. Un giovane, ma non ricordo esattamente. Mi mandò una breve lettera. Io credo ci sia una sorta di sindrome del salvato. C’è un debito che non si vuole riconoscere. Mi hanno detto che succede anche ai medici questa sindrome del rifiuto.

E il suo “grazie” alpinistico a chi va?

Nel momento in cui Gino Pisoni, presidente delle guide alpine, mi ha portato per la prima volta ad arrampicare in Paganella, settembre 1949, appena ho messo le mani sulla roccia ho capito che quella sarebbe stata la mia vita. Non l’ho dissi subito a Gino. Ma due anni dopo ero già guida alpina. Figlio della guerra, avevo vissuto di rapine ai tedeschi ed ero destinato a finire male: gli devo la vita perché credo di essere diventato un uomo che si è battuto molto.

La disponibilità al soccorso è congenita alla guida alpina?

E’ nel DNA di ogni guida essere a completa disposizione di chi ha bisogno. Sono in difficoltà, stanno rischiando la vita, bisogna che qualcuno metta a rischio la sua per cercare di salvarli. Il 90% degli incidenti avviene per imprudenza, per incapacità o troppa sicurezza, ma questo non deve incidere sullo spirito dell’intervento.

Anche lei sempre messo in conto di poter perdere la vita per salvare quella degli altri?

Non ci ho mai pensato, faceva parte del giochino. Anche perché, cosa vuoi, come dice un proverbio trentino “el dì del mona el ven per tuti”, prima o poi tutti sbagliano. Ma non pensate che io non abbia mai avuto paura, tutt’altro. Ho avuto spesso paura: è il termometro del coraggio. Se non ce l’hai, sei incosciente.

Il suo giorno del “mona”?

Nel ’59 sul Cerro Torre quando è morto Toni Egger. Maledetto il giorno in cui non sono morto io al posto del mio compagno. Ma non voglio parlare di quella montagna, per non dare a nessuno la possibilità di apparire a mie spese.

Nelle motivazioni di questo premio si dice che ha “interpretato in maniera esemplare il rispetto della natura”. Quale montagna stiamo lasciando ai nostri figli?

Da schifo. Penso al collegamento Pinzolo-Campiglio. Spacciano questo collegamento come la soluzione per la mobilità. Non ho paura di ripetere che viene fatto per interesse di qualcuno: non è possibile rovinare l’ambiente con una porcheria simile. Nel giro di cinque anni sarà tutto fallito. Continueranno a salire a Campiglio in macchina.

Il Brenta rimane la “sua” roccia?

In Brenta ho iniziato a fare la guida, lo vedo da sessant’anni e ancora oggi mi viene il groppo alla gola. E penso alla prima sul “Basso” con Franco Giovannini. In cima c’era Bruno Detassis: lui festeggiava la centesima, io la prima. Mi ha portato fortuna. L’ultima volta fu per il centenario del “Basso” quando ho condotto la cordata più lunga del mondo: quando io ero in cima, l’ultimo stava partendo.

Lei ha sempre rifiutato l’idea di una montagna via per la trascendenza. Alla soglia degli 82 anni ha cambiato idea?

La montagna è una delle più belle forme di anarchia al mondo. E non è che andando in montagna si diventi buoni. Io sono non credente per scelta e non metto in dubbio il credo di qualcun altro. Anzi, credo che la fede aiuti, ma nello stesso tempo tenere fede alla propria fede è pesante ed è la cosa più bella del mondo. Mi guardo nello specchio e mi osservo con rispetto. Mi sento al capolinea e mi auguro di sparire prima che qualcuno dica: che rompi!

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