Profit e non, le aziende si contaminano

Circa il 20% delle società quotate alle borsa di Milano redigono un bilancio sociale, denotando una certa attenzione alle “ricadute”

In Italia esistono circa 14 mila tra cooperative e imprese sociali, ossia imprese che non hanno come fine istituzionale la creazione di valore economico, bensì di valore sociale. Esistono poi circa 57 mila cooperative mutualistiche, alcune di grandi o grandissime dimensioni, altre molto piccole, che rappresentano quelle che in dottrina si chiamo “organizzazioni ibride”: hanno sì un fine economico, ma lo declinano nel senso di mettere in condizione i soci di trarre il maggior vantaggio economico dal loro lavoro, dai prodotti della terra conferiti e così via.

Venendo al mondo for profit, non esistono dati precisi circa la dimensione dell’attenzione ad una gestione attenta ad una prospettiva di sostenibilità nel tempo e di corretta gestione del rapporto con l’ambiente, inteso in senso lato, nel quale l’azienda opera. Possiamo dire che circa il 20% delle società quotate alle borsa di Milano redigono un bilancio sociale e quindi denotano una certa attenzione a questi aspetti. Esistono poi decine di migliaia di imprese grandi, medie e piccole che hanno una gestione che non mette certo al primo posto tra gli obiettivi la massimizzazione di un profitto di breve.

Ecco quindi che la tradizionale classificazione tra aziende profit e non profit sta vivendo una profonda revisione. In altri termini, mentre prima il mondo era per certi versi più “chiaro” – nel senso che il for profit faceva profitto e il non profit creava valore sociale – ora i due mondi tendono a contaminarsi tra loro. Il non profit ha un crescente bisogno di managerialità, che non vuol dire prendere le competenze tipiche del management e calarle nel contesto del sociale. Vuol dire creare competenze gestionali che sanno coniugare una gestione efficiente e attenta agli equilibri economici e finanziari e la creazione di valore sociale. Nel contempo le aziende non profit hanno bisogno di competenze in grado di fare il percorso inverso, ossia di innestare nella creazione di valore economico quella capacità di coniugare questa dimensione con gli aspetti sociali del fare impresa.

Se vogliamo, non si tratta di un approccio molto diverso rispetto a quello della dottrina sociale della Chiesa, dove il profitto, ma non è un fine, bensì lo strumento che da un lato remunera il ruolo dell’imprenditore e di equa remunerazione dei fattori produttivi, ma nel contempo strumento di creazione di benessere dell’Uomo in senso lato. Ecco quindi che si tratta oggi di ridefinire i tipici approcci del management, dall’organizzazione, alla finanza, dalla rendicontazione alle gestione strategica, al fine di passare da una dimensione di breve ad una di lungo termine e soprattutto al fine di coniugare diversamente il rapporto tra il fine istituzionale (creazione di valore sociale o di valore economico) con quelle dell’equilibrio economico-finanziario (l’essere efficienti) e quelle dell’equilibrio sociale in senso lato.

Michele Andreaus

docente all’Università di Trento

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