Oltre l’odissea

SOMMARIO: Manuel Marrese porta a teatro la tragedia dell'immigrazione.

Ha 27 anni, origini potentine, cresciuto in Friuli, ormai stabile a Trento, dove ha completato con profitto sociologia e studi internazionali. Ma con una vecchia passione latente, sbocciata un paio d'anni fa quando si iscritto ad un laboratorio al Teatro dell’Odin, in Danimarca. «Una scuola importante con cinquant'anni alle spalle, fondata dal salentino Eugenio Barba». Il giovane Manuel Marrese ha il teatro nel sangue. E un'umanità che il 3 ottobre 2013 ebbe un sussulto: il suo primo spettacolo di cui è autore, interprete e regista si intitola “Good Luck”, “Buona fortuna”. E nasce il giorno in cui una barca affondava a Lampedusa in fondo al Mediterraneo, trascinando con sé le speranze di quasi quattrocento persone. «Quella sera in cui ho visto l'immagine con una fila interminabile di bare mi sono detto: bisogna fare qualcosa. Ho cercato contatti e l'ho trovato con Alganesh Fisseha, presidente della fondazione Ghandi». Alganesh è un'eritrea che vive a Milano, molto attiva in quei giorni a Lampedusa. Ha una ONG, dal nome “Gandhi”. Negli ultimi anni si è occupata di una vicenda non nota, ossia quello che avviene ai migranti eritrei prima di arrivare sulle sponde della Libia o dell'Egitto. «Vengono rapiti – dettaglia Manuel – in Sudan, talvolta anche nei campi ONU, e portati nel deserto del Sinai dove i beduini li torturano e chiedono pesanti riscatti ai parenti in Occidente. Alganesh va in Egitto e organizza la liberazione di questi ragazzi. Io sono stato al Cairo ed ho incontrato alcuni di loro».

Lo spettacolo parte da qui, dal deserto del Sinai. «Il titolo? Mi è arrivato – rammenta Marrese – dal mare, perché tra gli oggetti emersi da quel naufragio del 3 ottobre c'era la fotografia di due giovani che avevano il sogno di sposarsi in Italia. C'era scritto “good-luck”, se l'erano portata in viaggio. Mi è sembrato il segno da cui partire per questo lavoro». Il tema del viaggio diventa di fatto la chiave di lettura dell'allestimento teatrale, che si immerge in quel mare insanguinato, ma vorrebbe andare anche oltre: «Credo vi sia la necessità di provare a immaginare cosa significa attraversare un deserto, finire in fondo a un mare. Un viaggio, in quanto persone, prima ancora che cittadini, dentro le tante Lampedusa di questo mondo. E attraversa la morte, ma per tornare alla vita con uno sguardo nuovo». Manuel si avvicina al microfono di radio Trentino inBlu, quasi a voler sussurrare agli ascoltatori il suo forte slancio di speranza: «Vorrei si arrivasse a stare al mondo in modo diverso, un mondo in cui cui quello che succede all'altro mi riguarda, direttamente. E quindi condiziona le mie scelte quotidiane». L'ideale è alto. Forse utopico, soprattutto se osservato dai banchi di una politica che sul dramma dei migranti, per mirare al tema che ispira lo spettacolo, si interroga (poco) e si scontra (di continuo). «Mi asterrei dal giudizio, ma mi pare si stia facendo molto poco e molto male. Non credo che bombardare i barconi possa essere la soluzione».

Preferisce lasciar parlare il suo Good Luck, il sociologo innamorato di Carmelo Bene: «Lui diceva che a teatro bisogna abbandonarsi. Il consiglio è quello di non leggere nulla, venire, sedersi e lasciarsi andare a quello che verrà». “Buona fortuna!”, Manuel. Alla faccia di chi dice che in teatro non porta bene.

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