Le chiavi del carcere

La situazione carceraria, tra repressione e rieducazione. Alla vigilia del convegno dell’Apas, nostra intervista al prof. Luciano Eusebi. “Il carcere? Dovrebbe essere l’extrema ratio. Invece…”

Passata (si fa per dire) l'emergenza sovraffollamento, “di carceri non si ragiona più", lamenta il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. A offrire spunti di riflessione ci prova l'Apas, che nel trentennale del suo impegno a favore dei detenuti e delle loro famiglie promuove un convegno venerdì 30 ottobre a Trento. Ne anticipiamo alcuni temi con il prof. Luciano Eusebi. Docente di Diritto penale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nei suoi scritti ha approfondito, soprattutto, temi attinenti alla teoria della pena e alla riforma del sistema sanzionatorio penale, ma si è occupato anche del rapporto fra problematica penalistica e teologia.

Prof. Eusebi, “Di carceri non si ragiona più dal momento in cui si è superata la triste situazione del sovraffollamento”. Sono parole del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al recente congresso nazionale dell’Anm. Volendo ragionare del carcere e sul carcere, da dove partire?

“Dal fatto che il legislatore, nonostante le sollecitazioni provenienti dalle Commissioni ministeriali finalizzate alla riforma del sistema penale, resta indisponibile a diversificare l’ambito delle pene applicate in sentenza, operando soltanto sulle forme di esecuzione di una pena che resta pur sempre inflitta, salvo minime eccezioni, come pena detentiva. Il che risponde alla logica di una risposta al reato concepita quale «corrispettivo» espresso dalla durata della detenzione, piuttosto che come «progetto» significativo per il condannato e per i suoi rapporti con la vittima e con la società. Una logica che ha ampiamente trascurato, fra l’altro, l’intervento sui fattori che favoriscono la criminalità (si pensi solo al ruolo dei paradisi bancari o di una certa configurazione della legislazione sugli appalti, e così via), come pure il contrasto dei profitti realizzati in modo criminoso”.

Guardando alla situazione penitenziaria italiana degli ultimi trent'anni, quali i momenti più “alti” e quali, invece, quelli più distanti dallo spirito dell'articolo 27 della Costituzione, che parla di rieducazione del condannato?

“La Costituzione, con quella norma, individua una strategia: nulla contribuisce di più a riconfermare l’autorevolezza di una norma violata, cioè a fare prevenzione, del fatto che proprio chi l’abbia trasgredita torni in concreto, per esempio attraverso un impegno riparativo, a riconoscerne la validità. Non a caso, la criminalità organizzata teme molto che qualcuno dei suoi membri metta in discussione i vincoli di appartenenza, perché ciò può motivare a ulteriori defezioni. È triste constatare, invece, come per molti anni sia passata l’idea che la società è meglio protetta se si «incattivisce», chiedendo l’espulsione sociale di chi abbia sbagliato (per lo più, di fatto, dei più deboli fra di essi). Mentre è proprio una società incattivita che favorisce stili di vita insensibili ai diritti altrui”.

Come ha inciso l’introduzione della riforma penitenziaria del 1975?

“Ha avuto soprattutto il merito di superare la prospettiva di una detenzione da «espiare»» passivamente, come mera «sofferenza»: facendo sì che quanto il condannato «viva» durante la detenzione possa risultare significativo per qualche modifica, nella durata e nelle modalità, della pena che sta scontando. E, in effetti, chi può compiere un percorso di progressivo reinserimento sociale manifesta tassi di recidiva enormemente inferiori rispetto a chi abbia visto «buttar via le chiavi» della sua cella”.

La storia recente ci dice come sia stata altalenante la legislazione, tra spinte verso la sanzione e spinte verso la rieducazione: la legge Gozzini (1986) ha introdotto percorsi alternativi alla detenzione, ma ha subito poi significative limitazioni (con la legge Simeoni–Saraceni del 1998 e con successivi provvedimenti: leggi Martelli, Bossi-Fini, ex Cirielli…).

“Sarebbe bello se la politica penale rispondesse solo a intenti di prevenzione della criminalità e non a intenti finalizzati a conseguire consenso per fini elettorali. Sarebbe già importante informare l’opinione pubblica del fatto che trent’anni orsono gli omicidi volontari erano in Italia tre volte quelli attuali: nonostante tutto, viviamo nel contesto geografico e storico con i tassi meno elevati di criminalità comune”.

Oggi l'Italia ha il sistema dell’esecuzione penale tra i più cari in Europa e con il più alto tasso di recidiva. Come se ne esce?

“Recuperando il principio del carcere come «extrema ratio», necessario solo quando non sia altrimenti possibile recidere legami di appartenenza alla criminalità organizzata o vi siano rischi concreti della reiterazione di delitti gravi. I modelli di risposta non detentiva al reato sono ampiamente noti, sono meno costosi (anche se richiedono una reimpostazione degli investimenti nel settore) e manifestano un’attitudine preventiva migliore”.

Cosa possiamo aspettarci dal percorso avviato dal Ministero della Giustizia con gli Stati generali dell'esecuzione penale, una consultazione di esperti sui temi caldi, del carcere, della pena, del reinserimento sociale, che procede in parallelo al percorso della legge delega in materia di riforma del sistema sanzionatorio?

“Gli elementi per una riforma complessiva del sistema sanzionatorio sono già stati ampiamente elaborati da precedenti Commissioni di riforma. Resta comunque benvenuta una consultazione che ha il merito di coinvolgere molte competenze e di riportare il problema all’attenzione dell’opinione pubblica”.

Non sembra però che si sia finora sviluppato un dibattito capace di coinvolgere l’opinione pubblica e la società italiana nel suo complesso.

“Finché si fa credere che il «fare giustizia» risulti espresso dalla pena detentiva inflitta, si penserà sempre che ogni diversificazione delle sue modalità esecutive costituisca una rinuncia, per mere ragioni «umanitarie», alla giustizia e alla prevenzione. Si tratta di far comprendere, invece, che la giustizia non ha a che fare con la «ripetizione» del male, ma con una progettazione la quale, per quanto impegnativa, abbia contenuti di segno opposto a quelli del male compiuto. Questo è molto importante anche per la comunità cristiana: la giustizia di Dio è «salvifica», consiste sempre in un intervento per il bene. Invece troppo spesso s’è fatto uso di letture superficiali di dati religiosi per avallare modelli ispirati alla ritorsione, utilizzati, talora, perfino in sede teologica (si pensi alle tradizionali dottrine della «sostituzione vicaria»). Ho dedicato a questo molto lavoro e anche un libro: speriamo che il giubileo della misericordia possa incidere pure da questo punto di vista”.

Le “stroncature” della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per le condizioni disumane e degradanti di molte carceri italiane (sentenza Torregiani) hanno ridato vigore alle misure alternative: siamo di fronte a un nuovo corso o il cambiamento culturale (e politico) è un traguardo ancora lontano?

“Sarebbe ingenuo nutrire troppo facili ottimismi: continuiamo ad assistere, infatti, a inasprimenti delle pene, che sono già nel nostro paese tra le più elevate in Europa. Così che l’opinione pubblica crede che si «sta facendo», mentre una buona strategia di prevenzione penale dipende da ben altri fattori, non di rado meno graditi alla stessa opinione pubblica e ai titolari di interessi che potrebbero risultarne intaccati. Eppure da qualche anno si parla in tutto il mondo di «giustizia riparativa» (restorative justice), di mediazione penale tra agente e vittima, in genere dell’impegno per risanare rapporti, piuttosto che per sancire divisioni. Ne parlano molti documenti internazionali. Si fanno, in proposito, convegni. Sono sorte, su questi temi, riviste scientifiche e cattedre universitarie. Trent’anni orsono, quando se ne cominciò a parlare (e a Trento si fece una delle prime iniziative) sembrava utopia”.

La cronaca di questi giorni dice del successo del ristorante, il primo nel suo genere, aperto nel carcere di Bollate. E' un'esperienza destinata a rimanere unica, o il segnale di un cambiamento in positivo?

“Oggi reinserimento sociale vuol dire poter spendere una professionalità: e per l’ex detenuto deve trattarsi, per trovare lavoro, di una professionalità di alto livello. Invece il lavoro è rimasto per decenni la cenerentola del sistema detentivo. Negli ultimi anni qualcosa s’è mosso, anche sul piano legislativo. Ma resta troppo poco. Bene il ristorante, anche per il rapporto che ristabilisce con l’esterno. Ma è essenziale che una professionalità acquisita in carcere sia davvero utilizzabile quando si esce”.

(a cura di)

vitaTrentina

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