Il buio sull’Europa

Si fa presto a dare la colpa della relativa facilità con cui gli attentatori hanno potuto fare il loro lavoro in Belgio alle fragilità dei sistemi di sicurezza in quel paese. Certamente anche quello è un fattore che ha giocato un suo ruolo, ma è difficile non rendersi conto della difficoltà di tenere sotto controllo una rete terroristica formata per lo più da “europei” (per quanto acquisiti) che operano in un sistema che, anche al di là delle facilitazioni previste dal trattato di Schengen, è fortemente interconnesso e di conseguenza impossibile da rendere impermeabile.

Ci si interroga con una certa serietà su cosa abbia determinato la radicalizzazione dell’islamismo fuori e dentro i confini europei. Le risposte sono più d’una, ma certo fra di esse c’è in prima fila lo choc della modernizzazione. Un sistema socio-religioso ancorato a tradizioni di società non particolarmente dinamiche (almeno a livello diffuso) ha subito una scossa notevole nel momento in cui ha cominciato ad essere infiltrato da una cultura competitiva come quella occidentale che ne metteva in crisi le strutture sedimentate. Nulla di nuovo sotto il sole. Sia pure in termini meno violenti la cosiddetta secolarizzazione ha provocato a suo tempo chiusure e reazioni barricadiere anche nell’universo cristiano (e, sia pure a livello marginale, ancora ne provoca).

Il fatto è che nel mondo islamico la modernizzazione ha potuto essere presentata non come un fenomeno di erosione dall’interno della sfera religiosa tradizionale, ma come uno strumento di completamento per la soggezione che l’Occidente avrebbe imposto all’Islam, dunque come una “conquista” che veniva dall’esterno (di qui il rilancio della mitizzazione dei “crociati”, che storicamente non furono affatto in grado di sottomettere il Medio Oriente). Il fenomeno presenta caratteristiche miste, perché si va dallo sfruttamento di questi sentimenti da parte di classi dirigenti tradizionali che non vogliono perdere il loro potere fino all’uso rivoluzionario della nuova ideologia. Comunque sia, queste forze sembrano in grado di riaffermare una capacità di mettere in crisi l’egemonia occidentale nelle antiche aree del potere islamico e dunque di far leva su un orgoglio ritrovato dopo quelli che vengono presentati come secoli di umiliazione.

Sin qui c’è una certa consonanza di vedute fra gli analisti del fenomeno. Dove la faccenda si complica è nello spiegare perché questa “rivincita” del tradizionalismo antioccidentale trovi fertile terreno anche in Europa e fra i figli di terza generazione di immigrati che si supponeva avessero tante buone ragioni per integrarsi.

A nostro modesto giudizio non si vuole vedere che almeno a livello simbolico le società occidentali hanno replicato quella “umiliazione” storica. Non ce ne rendiamo conto perché continuiamo a valutare tutto sul metro della eguaglianza dei diritti così come la si concepisce in Occidente: una uguaglianza (del tutto teorica in molti casi) di “opportunità” e di status giuridico. Il fatto è che invece né le opportunità né lo status giuridico sono veramente eguali se considerati nell’ottica pratica di gente comune. Detto in maniera semplificata, ma non lontana dal vero, quanti figli di immigrati pure alla terza generazione possono godere delle stesse condizioni di “benessere” che i media rappresentano come “diritti” acquisiti e indispensabili? Non ce li hanno in termini di qualità dell’abitare, di possibilità di un alto livello di consumi, di peso politico delle loro comunità di appartenenza.

Si può certo obiettare fondatamente che anche molti cittadini europei non hanno accesso a quel benessere (e la fascia diventa sempre più ampia), ma mentre quelli possono lamentarsi e considerarsi ingiustamente discriminati e lesi in diritti che, sia pure a parole, molti sono pronti a rivendicare per loro (e in qualche misura possono avere anche un limitato progresso) per questa generazione di immigrati non c’è accesso a quasi nulla di tutto questo.

In fondo, cambiando quel che c’è da cambiare, è lo stesso meccanismo che fra fine Ottocento ed inizi del Novecento provocò il successo dei movimenti anarchici in Europa. Oggi abbiamo abbondantemente sottovalutato queste dinamiche, che pure avremmo dovuto conoscere solo che ci ricordassimo di un po’ di storia, e adesso è da lì che bisogna ripartire. Indispensabile un serio impegno sulla sicurezza, con quel che comporta, ma altrettanto indispensabile ridimensionare il nostro modo di proclamare ovunque diritti a vanvera e su tutto. Perché dopo è difficile spiegare a quelli che non li ottengono che ribaltare il tavolo con la violenza non può essere né consentito né accettato come una strategia scusabile.

vitaTrentina

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