Così si può cambiare la geografia dell’economia

A Ravina e a Predazzo. In questi due paesi della periferia trentina i cinque ministri della Repubblica e le migliaia di ospiti del Festival dell’Economia dovrebbero fare un salto per capire sul campo quali sono “i luoghi della crescita”, tema di questa undicesima edizione. A Ravina potrebbero infatti visitare una cooperativa sociale che coltiva nelle serre relazioni umane con giovani in difficoltà e si affaccia con un green garden sulle sfide del mercato. A Predazzo troverebbero poi un folto gruppo di volontari del commercio equo che attraverso la bottega Mandacarù ha cambiato i consumi quotidiani di una valle.

La chiamiamo ormai tutti “economia civile”, nel Festival arancione avrà uno spazio dedicato nella recuperata piazza Santa Maria Maggiore, ma non è un’isola alternativa.Come un movimento carsico, sta cambiando da dentro la geografia dell’economia. Ha smascherato l’alto prezzo sociale e ambientale delle agglomerazioni in cui si concentra il predominio di pochi e ha rivelato invece l’importanza di un potere diffuso, partecipato da tanti portatori d’interesse che lo orientano e lo premiano con le scelte del loro portafoglio o del loro mouse (quante transazioni ormai avvengono on line!).

Questa rivoluzione copernicana – rispetto al paradigma economico classico che nella massimizzazione del profitto si reggeva su istituzioni benevolenti ed una reputazione spesso artefatta dai mass media – si è già palesata nelle precedenti edizioni del Festival a proposito di  squilibri mondiali e mobilità sociale, ma merita ora di essere considerata con scelta prioritaria: perché non dedicarvi la prossima edizione 2017? Purtroppo c'è ancora interesse a considerarla come una velleità utopica, ma le commemorazioni a margine del 500° anniversario di Thomas Moore confermano la forza trainante delle utopie e anche i pionieri del movimento cooperativo – non dimentichiamolo – furono considerati dei visionari dai loro contemporanei.

La crisi del 2007-2008, partita dal cuore di Wall Street, ci ha aperto gli occhi sul falso mito dell’espansione illimitata dei due decenni precedenti, ma soprattutto ci ha svelato i meccanismi perversi e deresponsabilizzanti della finanziarizzazione dell’economia: davanti ai lacci e ai capricci dell’alta finanza, con le sue tecniche voraci, pagate sulla propria pelle dai consumatori, ci siamo sentiti impotenti, oltre che a rischio. Però abbiamo capito che la finanza da sola non basta, e può fare molti danni, perché facendosi guidare dal “feticcio della liquidità” (Keynes) punta alla rendita nei brevi periodi.

La crescita economica si regge nel lungo periodo se è intrecciata con lo sviluppo di tutta la società, se coinvolge i lavoratori e le comunità, se promuove i legami, se riparte dalle periferie, se guarda all’orizzonte mondiale, se rispetta le risorse ambientali.

E’ la “nuova frontiera dell’economia” descritta in un fresco fondamentale libro dal titolo “La transizione ecologica” (editrice Emi) del francese Gaël Giraud che prima di farsi gesuita è stato banchiere ed economista. Nella sua analisi svela la struttura menzognera delle grandi banche, demolisce il paradigma tecnocratico e individualista, denunciato anche da Papa Francesco nella Laudato si’, per presentare invece il nuovo modello di una società di beni comuni in cui anche il credito sia considerato mezzo e non fine, come oggi avviene nelle vere banche etiche o nelle iniziative di microcredito. L’obiettivo di quest’economia civile, fondata su una partecipazione delle persone e un consenso culturale maturo, è dichiarato: fare riforme a vantaggio di tutti, per il bene comune e nel rispetto dell’ambiente, riducendo il ricorso al carbonio. “Se non si cambia civiltà in questa generazione – secondo Giraud – le prossime saranno costrette a farlo incalzate dai guai”.

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