La comunità dei masi devota a Romedio

Roveda, 15 gennaio 2017 – Orfani di Diego Moltrer (Milordo), i mocheni di Frassilongo e di Roveda chiedono all’arcivescovo Lauro Tisi di essere il loro “avvocato” di fronte all’amministrazione provinciale. Dice testualmente il sindaco di Frassilongo, Bruno Groff: “Caro Vescovo, oggi lei si trova in una comunità dove la visita di un monsignore della Chiesa cristiana è ancora un valore molto importante. (…) Siamo una comunità piccola ma forte di valori: di famiglia, di fede, di attaccamento al territorio. La differenza di una comunità non la fa il numero di persone ma la qualità delle stesse”. Ricorda l’emigrazione dei Kròmeri mocheni e li paragona ai moléti della terra di Rendena, patria dell’arcivescovo. Rivendica le tradizioni, anche quelle venatorie, “senza doversi giustificare davanti alle mode del momento. Vivere in montagna non è mai stato facile. Chiediamo che lei, qualche volta, interceda anche presso il governo provinciale perché non ragioni solo sul numero delle persone o sul prodotto interno lordo che può dare una comunità come la nostra”.

Domenica pomeriggio, festa di San Romedio. A Roveda, l’unica parrocchia del Trentino intitolata all’anacoreta anauniese, la chiesa fatica a contenere la folla. È il giorno della sagra, d’accordo, una delle tre sagre annuali (le altre: la terza di luglio e l’ultima domenica di settembre, dedicazione della parrocchiale), ma oggi c’è qui l’arcivescovo. Il quale, accolto come uno “dei nostri”, ricorda di essere arrivato già negli anni Ottanta, da seminarista, la notte di Natale, accolto assieme a mons. Gottardi da questa comunità coesa, con un agnellino vivo sull’altare.

Stavolta è arrivato da solo, direttamente dal santuario di San Romedio dove ha detto messa in mattinata. Qui ricevuto con gli archi di rami d’abete come usava per la prima messa di un prete novello. Don Daniele Laghi (1980), il parroco in “condominio” con tutte le parrocchie della valle (Fierozzo San Felice, Fierozzo San Francesco, Frassilongo, Roveda, Palù del Fersina, Sant’Orsola, Mala), saluta l’arcivescovo dicendo “a volte siamo come gli orsi, bisognosi non di essere domati ma amati”. E “don” Lauro li abbraccia con lo sguardo prima che con la parola.

Concelebra con don Remo Dorigatti, parroco a Mala per 52 anni; don Dario Sittoni suo docente in seminario; don Rinaldo Bombardelli, da qui, e con il diacono di sant’Orsola, Rino Bertoldi.

All’omelia ricorda come oggi tanta gente sembra non credere a nulla e poi crede a tutto. Ricorda quanto sia facile spostare l’opinione pubblica da destra a sinistra e viceversa, di come a parole si invochi la privacy e poi nei fatti molti sono pronti a denudare il corpo e l’anima sui social network, in una schizofrenia quotidiana. “Mai l’uomo è stato senza privacy, come oggi, e tutto questo ha alimentato la sfiducia nei confronti delle parole. Allora, accreditare Dio attraverso le parole mi pare un’operazione che ha poco futuro. Non è attraverso le parole che passa la fede delle nostre comunità. In giro vi sono molti che sanno parlare di Dio, molti di meno sanno parlare con Dio”. Provocato dal testo delle letture del giorno, l’Arcivescovo sottolinea che la via per parlare di Dio sono i fatti della vita. Le mani che uniscono, che abbracciano, non le mani vuote. “Dio è forte perché sa dipendere, Gesù di Nazareth è grande perché dice: io ho bisogno di te. E se c’è un peccato che porta alla morte è quello che è sotto gli occhi di tutti: il narcisismo. Il vivere camminando con lo specchio. Freud aveva classificato il narcisismo come malattia. Adesso è stata derubricata perché ci sono in giro troppi narcisi. Questo distrugge le comunità”. E, ancora: “Una comunità esiste solo se va in onda la pedagogia dell’Agnello di Dio. Vale a dire: io ho bisogno di te”.

Attorno all’altare ci sono gli alpini e i vigili del fuoco, i gruppi di volontariato Avark, i cacciatori, i sindaci degli altri comuni mocheni. C’è il coro parrocchiale, ci sono i cinque coscritti del 1999: Serena Puecher, Serena Oss Papot, Elisabet Roner, Giulia Froner e Mirko Petri Anderle. Quest’ultimo è l’unico maschio del villaggio e indossa il “Kronz”, il caratteristico cappello piumato, addobbato con perline, ninnoli, nastri colorati e palline di vetro.

La popolazione di Roveda (comune di Frassilongo) è sparsa nei 14 masi aggrappati alle ripide balze sulla sponda destra della valle del Rigolor. Appena 85 abitanti così suddivisi nei masi: Balsen (7), Cairo (5), Frunt (27), Kear (1), Kopperi (1), Martinotti (3), Mittembergh (15), Peirn (2), Pote (1), Puech (1), Sroveri (1), Stioppeteri (3), Tauferi (6), Tingherla (12).

La chiesa parrocchiale, del 1727, fu ampliata nel 1890 e restaurata nel 1983. Il cimitero, lungo e stretto, addossato alla parete sud, è stato raddoppiato qualche anno fa. Ma anche quello spazio sta per essere esaurito. In un mese, nel 2013, sono morti tre fratelli e una zia.

La festa di San Romedio prosegue di là dall’abitato dei Tauferi, dove le donne hanno preparato i dolci della sagra: la torta di pane e uvetta ma soprattutto i “kropfen”.

L’arcivescovo Lauro ammette che gli è piaciuto molto quanto detto dal sindaco nel saluto d’inizio: “Non conta quanti siamo, conta come siamo”.

Nel tramonto del giorno del patrono con l’orso, sotto il Fravort, due aquile volano basse, a lunghi cerchi, in cerca di un agnello per la cena.

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