Per l’umanità, non per il nostro orticello

Altezza reverendissima (secondo il protocollo ufficiale), Padre Vescovo (secondo l’uso ecumenico), caro don Lauro (secondo la forma che in tanti preferiamo, in quanto incarna il riconoscimento e il rispetto di una gerarchia basata sulla comunione), la prima riflessione che mi ha suscitato la lettura della sua Lettera alla comunità dal titolo “La vita è bella” è stato un riferimento a don Lorenzo Milani. Quell’incipit, dedicato alla ricerca dei volti di coloro che hanno deciso di “gettare la spugna” togliendosi la vita, mi ha evocato il confronto tra il priore di Barbiana e la professoressa piena di certezze, e la conclusione su quanto sia ingiusto “far parti uguali tra disuguali”.

Trasferire questa massima – originariamente dedicata ai poveri esclusi da un sistema scolastico irrigidito ed elitario – a tutti gli “ultimi degli ultimi”, alle “periferie esistenziali”, ai sopraffatti dalla sofferenza, dall’assenza o dall’artificialità delle relazioni, dalla perdita di senso, dovrebbe diventare – nella prospettiva ecclesiale – il nostro primo imperativo, purificato da pretese di presunta superiorità e giudizio morale.

Per questo, quando parliamo di “corresponsabilità” all’interno delle nostre comunità, mi piacerebbe che si riflettesse sul valore semantico, spirituale e pratico del termine. E soprattutto sulla sua autenticità, che dovrebbe essere frutto di una corrispondenza tra i gesti e le parole, tra le parole e le azioni, tra le promesse e gli adempimenti. Una corrispondenza tra ciò che noi, per grazia di Dio, vogliamo essere e ciò che riusciamo ad essere nella nostra vita quotidiana.

Allora la comunione ecclesiale si manifesterebbe come criterio di giudizio e di azione, e diventerebbe un costume e un camminare insieme autentici, sinceri e fecondi.

Nascerebbe così una consapevolezza diffusa di essere stati coinvolti, per grazia, nel grande mistero di Dio che si compie per noi uomini nell’orizzonte della storia della salvezza. Si maturerebbe la certezza di non essere abbandonati dal Signore, di vivere in forza della sua presenza e di avere il sostegno e la compagnia di chi è amico di Dio, e di tutti gli uomini di buona volontà. Il Risorto diventerebbe il centro e il fondamento dell’esistenza credente e della vita di chi è suo discepolo.

Il vero Dio, quello vivente, sarebbe un Tu con cui si parla e non un Tu di cui si parla. Sarebbe un Dio a cui l’uomo rende testimonianza con il suo impegno nel mondo a favore del prossimo.

Così anche un magistero come quello di Papa Francesco – tanto citato e invocato, ma poco imitato; molto riverito, ma assai meno recepito – verrebbe compreso, incarnato e applicato. Pensiamo al grande stimolo della Evangelii gaudium di ritornare a essere una “Chiesa in uscita”, sulla strada, in cammino. Pensiamo alla massima “La realtà è più importante dell’idea”, che altro non è se non il criterio del Signore: partire dalla realtà, cioè dalla sofferenza, non per negare i principi, ma per incarnarli nel concreto, per dare loro una valenza di fecondità reale per la vita e la speranza delle persone. E poi, l’esercizio (difficilissimo) della virtù della mitezza, che si presenta come una vera rivoluzione e una soluzione, in quanto rappresenta la virtù per la quale si entra in comunione con gli altri e la possibilità di accogliere l’altro nella sua alterità.

Così la Messa non sarà mai finita, e ci lascerà dentro la “santa inquietudine” di non lavorare per il nostro orticello, ma per tutta la comunità e l’umanità, lasciando segni di resurrezione e seguendo la prospettiva del Regno.

Chiudo con una leggenda ebraica, citata dal filosofo Martin Buber: “Dinanzi alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso ed aspetta. È il messia. Mi recai allora da un vecchio e gli chiesi: ‘che cosa aspetta?’ e il vecchio mi dette la risposta ch’io allora non capii e che ho imparato a capire molto più tardi. Egli mi disse: ‘Te’”.

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