Per riuscire a camminare, Mosè si tolse i sandali

Se “Terra promessa” è la nostra relazione con il Dio mite di Gesù Cristo e lo stile con cui siamo chiamati a rapportarci con il coniuge, con i figli, con i confratelli, con i compagni di scuola, con gli insegnanti, con i colleghi di lavoro, con i vicini di casa, con i genitori, con i profughi, con le persone delle nostre comunità (giovani o anziane, sane o malate), con gli altri membri dei rinnovati Comitati parrocchiali e Consigli pastorali… in tal caso, il titolo dell’Assemblea Diocesana di sabato 23 settembre è graffiante e pungente. “Terra promessa” non è “Terra conquistata”. “Terra promessa” evoca la precarietà del camminare. “Terra conquistata” richiama la conservazione di un trofeo. “Terra promessa” genera desiderio e apertura al futuro. “Terra conquistata” favorisce immobilismo e paura del futuro.

Conquistatori o camminanti? Il conquistatore considera la “Terra promessa” una realtà di cui impadronirsi, o un ruolo da ottenere a tutti i costi e da occupare il più a lungo possibile. Il conquistatore sfrutta la “Terra promessa” per il proprio tornaconto, dimenticandosi di Colui che gliel’aveva affidata e del perché gliel’avesse promessa. Il conquistatore si appisola volentieri sulla comoda poltrona dell’aver capito tutto e, quasi sempre, di averlo capito meglio degli altri. Il camminante, invece, scopre nelle persone che gli sono accanto e nell’ambiente che lo circonda la “Terra promessa” verso cui è chiamato a fare il primo passo per creare fraternità e custodire la “casa comune” dell’umanità.

Mosè, il “camminante” per eccellenza verso la Terra promessa, rivela cosa comporti camminare, dentro i confini della precarietà umana, con un Dio liberante e un popolo chiamato a libertà.

Nella sua vocazione Mosè comprende che la propria vita sarà un cammino imprevedibile, impossibile da pianificare nei minimi dettagli: «Caminante, il cammino sono le tue orme. / Caminante, non esiste il cammino, / il cammino si fa camminando» (Machado). Per riuscire a camminare al ritmo del cuore di Dio, Mosè deve togliersi i sandali: rinunciare alla rigidità dei propri punti di vista e ammorbidirli nel fuoco della tenerezza di Dio.

Anche la rivelazione del nome stesso di Dio non dice tutto sull’identità di Colui che sta chiamando Mosè; Dio è sempre oltre rispetto ad ogni nostra comprensione: è la precarietà di ciò che ci pare di aver capito di Dio.

Il nostro camminare avrà bisogno dei muscoli dell’umiltà, della cordialità e dell’amabilità.

Pensando alla potenza dell’Egitto, Mosè è consapevole della propria inadeguatezza, tuttavia cammina fino dal faraone e intercede per il popolo di Dio. Il cammino nel deserto evidenzia ulteriormente la precarietà del camminare verso la Terra promessa; eppure, anche nelle difficoltà del deserto Dio si prende cura del suo popolo: «Egli lo trovò in terra deserta. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio» (Dt 32,10).

Dopo aver speso tutta la sua vita per raggiungerla, Mosè non può entrare nella Terra promessa: la contempla da lontano, accettando che altri prendano il suo posto. Mosè sperimenta che “Terra promessa” è speranza per camminanti che sanno guardare lontano: «Noi non ci fermeremo / non ci stancheremo di cercare / il nostro cammino» (Ramazzotti).

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina