La veglia

Un bel canto, dolci melodie, voci squillanti si alzano nelle navate all’apertura della veglia missionaria, sabato 30 sera in Duomo, poi la lettura della Parola: “Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca…”, e subito il breve commento del vescovo Lauro. Si dice che il Vangelo non interessa più, ai giovani per niente. I praticanti sono in calo, dicono le statistiche. E subito i “devoti” commentano che siamo nella più completa confusione. Se il Vangelo non attrae più vuol dire che c’è qualcosa che non funziona, siamo noi che abbiamo dichiarato che non funziona col nostro comportamento sbiadito, scialbo, incolore. Significa che nelle comunità cristiane c’è difficoltà, ci crediamo poco e se crediamo, lo facciamo a parole e a chiacchiere che lasciano il tempo che trovano. Così lo si depotenzia, il messaggio. Per il vescovo Lauro lo depotenziamo, il Vangelo, perché non sappiamo metterci mani, piedi, cuore, vita. L’abbiamo reso astratto, insipido. Il Vangelo lo si accredita vivendo. Altro che praticanti, mestieranti. E invece se sappiamo tradurre nella vita l’incanto di Gesù, l’appeal torna subito. Ecco allora cristiani che perdonano, cristiani che sorridono, accolgono e ascoltano. Un tipo di cristiano capace di rimanere fedele alle cose positive della vita. E’ arrivato il momento di vivere davvero la stupenda avventura di Gesù di Nazareth, esorta vivamente don Lauro. Allora anche il peggior delinquente diventa un incanto! Siamo chiamati a camminare, non a star fermi. Ad attivare processi positivi.

E’ un’appassionata esortazione quella del vescovo di Trento: abbassarsi per innalzarsi; rispondere agli aneliti più profondi del nostro cuore; uscire dagli schemi preconfezionati; accorgersi che il fratello migrante ti ha regalato la vita; far rivivere un paese che andava morendo.

La stessa biografia dei nostri missionari – insiste il vescovo -, la partenza, il vivere e condividere con i poveri vuol significare questo: che la loro vita è diventata Vangelo possibile. E’ gente andata fuori dagli schemi. Ecco cosa vuol dire missione, come diceva il patriarca Atenagora: “lasciare il proprio io”, lasciare posto agli altri. Un egoista che gira per il mondo è uno che torna come se non avesse visto niente.

La veglia, ben organizzata, partecipata, è stata intramezzata da preghiere e bei canti e da testimonianze vere, appassionate, a tratti poetiche:don Francesco Moser di Trento rientrato da Timor Est, suor Antonietta Defrancesco di Predazzo dal Brasile, padre Modesto Todeschi di Montesover dal Burundi, padre Livio Mattivi di Povo dalla Romania e padre Donato Benedetti di Segonzano dal Togo.

Don Francesco Moser ha richiamato, in un mosaico di presenze geografiche e speranze di genti, un caleidoscopio di volti e colori: i maori della Nuova Zelanda; gli abitanti di Papua Nuova Guinea; le crocifissioni dei missionari in Giappone e i 200 anni sopravvissuti tra cristiani, rimasti senza pastori in fedeltà creativa col Vangelo; le 3000 isole dell’Indonesia; i martiri della dittatura di Park nella Corea del sud degli anni ’50 (e il buio della Corea del nord oggi, tante armi, fame e penurie per i suoi abitanti); Asia Bibi, la ragazza pakistana in carcere da 3000 giorni per la sua fedeltà al Vangelo; i 62 milioni di bambini condannati ai lavori forzati che confezionano i vestiti che noi comperiamo…

Suor Antonietta Defrancesco ha ricordato la scoperta-conquista; il genocidio di popoli interi, incas, guaranì, gli abitanti degli arcipelaghi ecuadoriani e cileni; le voci profetiche di padre Kino in Messico, dei padri gesuiti nelle “Missioni”, il fatto che hanno dato il sangue “perché tutti abbiano vita e vita in abbondanza”. Oggi una chiesa-serva, voce di chi non ha voce. Con le nuove frontiere dell’Est europeo, terra anch’essa di missione.

Padre Modesto Todeschi ha cantato l’Africa – lui è in Burundi dal 1966 – e la sua grande gioia di essere missionario.

Voci, ancora canti, il Duomo pieno di gente. La missione inizia ancora una volta, la missione continua nella vita di tutti i giorni.

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