
Versi scarni, parole misurate, spazi bianchi dettati da una forte spinta interiore
Un poeta “luminosamente serio”. Così vorrei definire Massimiliano Mandorlo, rubando lo sguardo commosso che Peter Handke rivolse ad un giovane seduto a leggere, addossato al muro di una stazione, in attesa dell’ultimo autobus. Un libro, questo di Massimiliano Mandorlo, da leggere seduti belli dritti su una sedia, immaginandolo di fronte, alla scrivania, intento a scrivere in punta di matita. Quella matita che ancora pare di sentire strisciare parcamente sul foglio. Tra quei versi, negli spazi bianchi, nei silenzi ci sono i suoi trent’anni appesi a un filo di sole,/ad una gioia inseguita/come vento che come pietra viva/…/chiedono luce, a dire che la speranza, seppur esile e intermittente, messa a dura prova dalle vicende della vita e dalla stessa natura, attraversa e connota l’intero percorso. Quasi una dichiarazione di adultità, anche se in fieri, intessuta e nutrita di qualcosa che non sta nelle parole, nel verso, nella pagina ma lo si avverte pulsare. Qualcosa talora ruvido, embrionale che cova per ancora maturare in una proiezione più consapevole, pacificata. Come un tentativo di prendere le misure di ciò a cui assiste e spesso intensamente partecipa, per rapportarlo in primis a se stesso, alla propria capacità di accoglierlo valutando, di volta in volta, la propria posizione emotiva e sentimentale di fronte ad esso. Come volesse aprire la strada alla goccia nel fiume che si apre in mezzo alla petraia (B. Brecht). Illuminante nel cuore del libro la citazione sul mondo minerale di Teilhard de Chardin che personalmente ricorderei anche per il suo “tutto quel che ascende converge” ugualmente sotteso alla visione di Mandorlo. Di qui certi scatti, certe virate, quasi una scarica elettrica nel corpo di una o dell’altra poesia, una tensione febbrile che vuole com-prendere e abbracciare il più possibile: Quante volte ho cercato di dipingervi,/matti, storpi, illuminati dalla grazia,/ quante volte ho fallito/perché nell’occhio vivo della pietra e degli alberi/era lei a dipingere linee e colori in me,/anima del mondo, natura, io/umile servo della mia. Versi scarni, parole misurate, spazi bianchi dettati da una forte spinta interiore, ampiamente manifestata nelle precedenti opere Mareoltre e Luce evento, che si quieta nella visionarietà mistica e nella speranza/convinzione di un esito di luce, evidenziate con fine sensibilità da Giancarlo Pontiggia in seconda di copertina e da Pietro Montorfani in postfazione. Ciò che vale per visibile e invisibile, la barriera tra il qui e l’altrove, “vitale membrana” per lo scambio intessuto di attenzioni e preghiere che segnano la compartecipazione al destino dell’altro da e per l’aldilà: le voci dei miei morti, dei miei vivi,/di chi dorme o in silenziosa attesa, già nel primo testo del libro, riprese nel penultimo riemergono i visi dei miei cari/di chi per lunga assenza/mi fu dato/ancora più pienamente/e continua la sua opera/visibile e invisibile/dentro il mio umano viaggio/terrestre dove è chiaro il riferimento all’ultimo Luzi. Non posso infine tacere la bellezza della visione riferita alla chiesa di S.M. dello Spasimo a Palermo: madre dello spasimo,/roccia che ancora risplendi/in quel delirio/di gloria e macerie./ così come l’esergo di Laurentius Eremita Mi fu detto: tutto deve essere accolto/senza parole e trattenuto nel silenzio. Il silenzio, certo, quel vivaio prezioso e necessario dove attinge forza il pensiero e può darsi che partorisca una/la parola, accompagnata magari da la carezza di Dio che si è posata sulla vasta/addormentata/distesa dei mari/come una brezza leggera/soffiando.