“Chi perde il contatto con il popolo, lo perde anche con Dio”

Il Card. Bagnasco ripercorre i suoi dieci anni alla guida della Chiesa italiana nella conversazione con don Ivan Maffeis

somm: 2; “Il cuore umano rimane lo stesso nel suo bisogno d’infinito”.

somm3: “Come diceva Madeleine Delbrêl, la sola vera vecchiaia è l’egoismo.

«Da questo santuario della Madonna della Guardia – dove salgo a piedi ogni primo sabato del mese, pregando il Rosario con i pellegrini – contemplo la città, stretta tra i monti e il mare. Come un refolo di vento, sento lo sguardo scorrere rapido – ma non per questo meno intenso e generoso – da un punto all’altro, dalle fabbriche al porto, dalle strade agli uffici. Si posa sui tetti delle case, entra nelle finestre e si lascia catturare dal racconto della vita quotidiana.

«Amo la città, sobria e schiva. Ha visto la nostra infanzia, i volti più cari, i giochi sulla piazza tra le macerie della guerra. Città splendida, che offre improvvisi squarci di cielo, scorci che incantano, vie fatte di voci e botteghe, di odori e panni stesi. Città segnata dalla fede, espressa in splendide chiese, nelle edicole che accompagnano strade e palazzi, in tradizioni religiose che ne scandiscono la laboriosità, la concretezza e l’ardimento.

«Da quassù mi chiedo anche se quella città che porto nel cuore esista ancora o non sia forse solo un ricordo, un lembo di storia superba, rimasta nelle vestigia gloriose di arte e riservata opulenza, di collaborazioni rispettose tra il civico e il religioso, di traffici commerciali, imprenditoria operosa e approdo per genti in cerca di futuro.

«Il tempo scorre velocemente, le mutazioni incalzano, il mondo diventa sempre più piccolo, anche se a volte sembra restare interiormente lontano. Mi sorprendo a domandarmi se la velocità con cui le informazioni ci raggiungono vada di pari passo con la nostra partecipazione spirituale e pratica ai problemi immensi di altri popoli e Nazioni, oppure ci spaventi e paradossalmente paralizzi l’anima e la sensibilità. Ho sempre considerato la tendenza a ripiegarsi e vivere rinchiusi su se stessi come la via per una vita superficiale, meschina, opaca. Triste.

«Per esperienza sappiamo che non è l’avere di più che riempie la vita: si può accumulare una quantità di cose e non coglierne l’intensità di bellezza. La Chiesa non ha mai negato il progresso né ha mai detto ai poveri di rimanere tali, anzi, si spende per la loro promozione. Il punto non è questo; il punto è che tale cammino si compia nell’onestà e non a qualunque costo; che l’avere non esaurisca lo spirito e non riduca ciò che è materiale a ciò che conviene al singolo, a prescindere dalla comunità: quasi l’importante fosse un proprio benessere, senza avvertirne l’intrinseca relazione con la condizione di chi chiede – e sono moltitudini – che sappiamo rinunciare a qualcosa in nome del bene comune, che mai si costruisce senza sacrificio personale.

«Di questa cultura vive la città; di dialogo cordiale e partecipazione concreta, non velleitaria; dell’amore per le persone, a partire da quelle in difficoltà, dalle famiglie che vorrebbero il dono di altri figli, dai giovani che non trovano lavoro, dagli anziani che attendono sulla soglia. La nostra voce non è quella dei vati, di chi pretende di scrutare il futuro, ma è semplicemente quella della gente che abbiamo la grazia di ascoltare, perché – nonostante i nostri limiti – ne condividiamo fino in fondo le giornate. È la voce di quel popolo che, come diceva ancora Guardini, è «il compendio di ciò che nell’uomo è genuino, profondo, sostanziale»: per questo, chi perde il contatto con il popolo, lo perde anche con Dio.

«L’avere può sì migliorare la vita, ma non saziarla. Porta a consumare, non a gustare. Può dare delle soddisfazioni, ma non la gioia. Spesso contribuisce a lasciare nell’immaturità, fino a interpretarsi come il centro del proprio ambiente, bisognosi di dipendere o di legare a sé, incapaci di relazioni libere e propositive, chiusi nel cerchio di interessi angusti, propensi più al lamento che alla responsabilità; lontani, comunque, da quel banco di prova che è la disponibilità a morire a se stessi per gli altri, senza nulla pretendere. Eppure, proprio questo rimane il criterio di una vita riuscita. Nient’altro.

«I cambiamenti di questi anni – tanto nella società come nella Chiesa – sono indiscutibili. Fanno impallidire la storia. Viene spontaneo voltarsi e chiedersi dove, ad esempio, siano finiti quegli uomini e quelle donne che – all’indomani dell’apparizione della Madonna nel 1490 – hanno offerto giornate di lavoro per realizzare questo santuario. Erano tempi duri, segnati dalla povertà, ma resi fecondi dalla fede, dall’amore religioso e fraterno, dall’appartenenza a una comunità.

«Sì, tante cose sono cambiate, ma non credo che siamo così distanti da quel popolo che ha realizzato questo tempio. Viviamo certamente in maniera più distratta, in mezzo a trasformazioni che incidono sul nostro modo di pensare e di esistere, ma il cuore umano rimane lo stesso nel suo bisogno d’infinito. Nessun appagamento può colmare quella sete di pienezza che ci accompagna sempre, come una ferita salata, destinata a non rimarginarsi. Siamo creature poste sul confine tra il tempo e l’eterno; siamo una meravigliosa sinfonia incompiuta; siamo desiderio, tensione e invocazione.

«Qui, sotto lo sguardo della Vergine, intuiamo che esiste una strada con cui dare spessore alla vita. Percorrerla è condizione per tornare a dare alle cose il loro giusto peso e farle stare al loro posto, nonostante le lusinghe del mondo; per scoprire che, come diceva Madeleine Delbrêl, la sola vera vecchiaia è l’egoismo.

«Si è fatto tardi. È l’ora nella quale si fa ritorno a casa, rigenerati da una speranza e un coraggio più grandi di ogni possibile incomprensione e infedeltà.

«Questo santuario rimane come una luce nella notte, una luce che sale dal tempo e illumina la città dell’uomo. Maria, ricorda sant’Agostino, concepisce il Figlio prima nell’anima che nel grembo: è la chiamata di ogni cristiano, quella che collega la terra al cielo e permette a Dio di entrare nella nostra storia. È Lui – che in Gesù Cristo ci ha rivelato il volto autentico dell’uomo – la ragione della vita, il nostro respiro, il nostro destino. La ferita che è in noi è il segno che siamo fatti per Lui e che niente, meno di Lui, può appagarci».

Angelo Bagnasco

(per gentile concessione Edizioni San Paolo)

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