Il trilemma della manovra finanziaria

Compressa fra esigenze divergenti, che è difficile mediare a colpi di demagogia

Ci sono tre questioni di fondo sulla manovra finanziaria dello Stato, che spiegano il suo tormentato iter e lo scontro che si è infiammato anche fra autorevoli economisti. La prima è che un certo livello di spesa pubblica è indispensabile per garantire i servizi essenziali, combattere la povertà e attenuare i cicli recessivi. Queste azioni mirate al benessere collettivo spingono all’insù i fabbisogni finanziari, e la loro efficacia dipende in buona misura proprio dall’entità dei finanziamenti. Ad esempio, per un aggancio alle cose di casa nostra, la manovra anticrisi 2009-2011 della Provincia, apprezzata un po’ da tutti, mise in gioco risorse pubbliche aggiuntive per 1.335 milioni, l’8 per cento del PIL, rese disponibili grazie alla solidità della finanza dell’autonomia. La situazione dello Stato è ben diversa: l’Italia è intossicata di debito, e in Europa soltanto la Grecia sta peggio di noi. Questa è la seconda questione che, all’opposto della precedente, implica impopolari tagli di spesa, perché ogni Governo responsabile non può sottrarsi all’obiettivo di ridurre il rapporto debito/PIL. Tuttavia – terza questione – sarà impossibile migliorare questo rapporto soltanto riducendo il dividendo (debito) ma servirà anche l’aumento del divisore (PIL), cioè la crescita, da stimolare anche con la spesa pubblica.

Per risolvere il trilemma, serve un’appropriata combinazione fra il «quanto», il «come» e il «dove» spendere. Sotto il primo profilo, contenere il deficit di bilancio, che ogni anno alimenta il debito, è irrinunciabile. Le vicende altrui (vedi Francia) non possono costituire un alibi, perché il deficit è come un bicchiere di vino, che fa buon sangue in un soggetto sano, ma è veleno per un alcolista in cura disintossicante. Al rigore quantitativo va poi associata la selezione delle spese (o agevolazioni fiscali) più produttive, capaci di mobilitare risorse private e innovazioni. Per questo si insiste sul rilancio degli investimenti pubblici o sulla detassazione del lavoro (che consentirebbe nuove assunzioni), mentre fanno discutere le spese ripetitive di tipo assistenziale.

La manovra è dunque compressa fra esigenze divergenti, che è difficile mediare a colpi di demagogia. Fortunatamente nel 2012 ci ha pensato il Parlamento, pur in piena crisi economica, a dare una lucida prova di responsabilità finanziaria, approvando a larghissima maggioranza e in soli sei mesi la modifica della Costituzione che sancisce il principio del pareggio del bilancio: «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». La stessa legge costituzionale impone «la definizione delle gravi recessioni economiche, delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali» che giustificano il ricorso all'indebitamento «sulla base di un piano di rientro» e «l'introduzione di regole sulla spesa che consentano di salvaguardare gli equilibri di bilancio e la riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel lungo periodo». Formule elastiche (da cui traspare il suddetto trilemma), ma non troppo, come i principi di sostenibilità finanziaria che agitano il confronto fra il Governo italiano e la Commissione europea. La quale, dopo vari tira e molla, ha dato segni di diffidenza… perché, si sa, i soldi si contano, non si raccontano.

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